Il Re | Marco Spotti |
Amneris | Ichina Vaughn |
Aida | Micaela Carosi |
Radames | José Cura |
Ramfis | Carlo Colombara |
Amonasro | Alberto Mastromarino |
Un Messaggero | Carlo Bosi |
Sacerdotessa | Antonella Trevisan |
Prima Ballerina Ospite | Myrna Kamara |
Primo Ballerino | Giovanni Patti |
Regia e Scene | Franco Zeffirelli |
Costumi | Anna Anni |
Coreografia | Vladimir Vassiliev |
Orchestra, Coro, Corpo di Ballo Dell'arena di Verona |
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Maestro del Coro | Marco Faelli |
Direttore Daniel Oren |
“Aida” e l’ Arena, un binomio oramai inscindibile: se si pensa all’ una, il pensiero corre automaticamente all’ altra.
Detta “liaison” non ha però sempre reso un buon servigio al capolavoro verdiano, il quale, grazie al Cielo, non si esaurisce con la Marcia Trionfale del secondo atto, ma che anzi è opera di intenso scavo psicologico dei personaggi, di grandi innovazioni timbriche ed armoniche, e che costituisce una delle cerniere evolutive nel percorso compositivo di Verdi.
In molte produzioni degli anni passati, con l’ eccezione della raccolta ed elegantissima produzione “blu” di Pizzi, tutta ombre e mezze luci, abbiamo visto prevalere un’ ostentata esteriorizzazione del dramma, la quale ha offerto formidabili occasioni di puro spettacolo, ma che ha pure fatto passare in secondo piano il carattere essenzialmente intimo di “Aida”, opera nella quale l’ interazione dei personaggi, sia essa in termini di coazione o di contrapposizione, è giocata su mezzevoci, su sguardi, su “non detti” sottolineati però dalla musica.
Franco Zeffirelli firma un allestimento “intermedio” tra la concezione esteriorizzante e quella “intimista” dell’ opera.
Crediamo, non senza motivo, che tale scelta registica, la quale in parte si riflette anche nelle scene e nei costumi, derivi dal precedente allestimento “mignon”, che Zeffirelli creò per il minuscolo teatro di Busseto, e che si rivelò come uno dei più riusciti ed interessanti tra quelli di cui fummo partecipi.
Trovandosi a gestire uno spazio enorme quale quello dell’ Arena, Zeffirelli, autore anche delle scene, pur non rinunciando alla pompa di un Egitto fantastico, ridondante di ori e colori, di grandi masse e di grandi movimenti, riesce tuttavia a mantenere un’ atmosfera raccolta, un contatto costante tra i protagonisti, un legame di anime percepibile in ogni scena.
Il potere del Farone è testimoniato da un’ onnipresente piramide, gigantesca, quasi ingombrante, la quale, ruotando su se stessa ci mostra ora le sale del palazzo reale, ora il tempio di Ftah, ora il santuario di Iside, ora il sotterraneo-tomba, nel quale Radames e Aida coroneranno nella morte il loro amore.
I simboli sono ovunque, incombenti: sfingi, statue di deità, semplici oggetti di uso comune, il tutto a rendere l’Egitto di Verdi ancor più Egitto.
Opulenti sono anche i costumi, firmati da Anna Anni, la quale sceglie tessuti preziosi ed accessori davvero regali per gli Egizi, mentre invece gli Etiopi sono abbigliati con tribale eleganza; il popolo, irrilevante, è color della sabbia.
Curatissimo il light design di Paolo Mazzon.
“Composito” il risultato musicale.
Daniel Oren offre una prova maiuscola: la sua direzione palpita di mille colori, è appassionata senza cadere mai nell’ eccesso; i suoi “rubati” richiamano le brezze del Nilo, i pianissimi lo stormire dei papiri, i forti il sole rosso del deserto.
Esemplare l’attenzione ai cantanti ed al coro, quest’ ultimo bravissimo, mai abbandonati a loro stessi, ma anzi accompagnati con mano sicura nelle innumerevoli difficoltà della partitura.
Molto bene anche l’orchestra, che sotto la bacchetta di Oren appare davvero galvanizzata.
Micaela Carosi, grazie ad una voce importante e molto ben educata, canta un’ ottima Aida, ricca di sfumature, intensa, appassionata, a tratti selvaggia. Belli i suoi filati e rapinose le mezzevoci, che ben si sono evidenziate nel suo ottimo “O cieli azzurri”. Ci hanno impressionato assai favorevolmente anche la sua presenza scenica e le doti di attrice. Bene davvero, senza riserve.
José Cura è “genio e sregolatezza”, e in tale ottica possiamo inquadrare il suo Radames, il quale, se convince del tutto in quanto a recitazione ed interpretazione, ci lascia invece alquanto perplessi per ciò che attiene alla vocalità.
Cura è splendido attore, interprete intelligente, conoscitore del pubblico, ma la voce, spesso artificiosamente scurita, spesso troppo baritoneggiante, risulta al momento il suo punto debole. Paradossalmente le cose migliori le ha fatte sentire nel terzo e quarto atto, nei quali un frequente ricorso al falsettone gli ha permesso di trovare accenti di una qualche morbidezza.
Tichina Vaughn, Amneris, voce assai piccola per gli spazi areniani, si disimpegna come può, offrendo nel complesso una prova opaca, dovuta tra l’altro ad evidenti difficoltà nei gravi e ad un’ interpretazione assai generica dal punto di vista vocale.
L’Amonasro di Alberto Mastromarino è barbaricamente truce, costantemente corrusco, a tratti sopra le righe; la voce non ci è parsa del tutto a posto, soprattutto nel registro centrale.
Bene l’autorevole Ramfis di Carlo Colombara, il quale conferisce al Sommo Sacerdote l’autorevolezza che deve essergli propria, e lo fa con voce salda e ben proiettata.
Egualmente più che positive le prove di Marco Spotti, il Re e di Antonella Trevisan, la Sacerdotessa.
Bravo Carlo Bosi, il Messaggero.
Alla fine calorosi applausi per tutti, più intensi per Oren e Carosi, da parte di un pubblico che gremiva l’ anfiteatro in ogni ordine di posti.
Alessandro Cammarano