Pamina | Maria Laura Iacobellis |
Tamino | Antonio Garès |
Papageno | Levent Bakirci |
Regina della notte | Brigitta Simon |
Sarastro | Abramo Rosalen |
Papagena | Jennifer Turri |
Prima dama | Khatia Jikidze |
Seconda dama | Sarah Hakobyan |
Terza dama | Nutsa Zakaidze |
Monostatos | Carmine Riccio |
Primo fanciullo | Sofia Cippitelli |
Secondo fanciullo | Caterina Piergiacomi |
Terzo fanciullo | Giovanni Tartufoli |
Primo armigero/Secondo sacerdote | Alessandro Fiocchetti |
Secondo armigero/Primo sacerdote/Oratore | Alessandro Ravasio |
Direttore | Giuseppe Montesano |
Regia e coreografia | Luca Silvestrini |
Scene e luci | Lucio Diana |
Maestro del coro | Riccardo Serenelli |
Maestro delle voci bianche | Gianluca Paolucci |
Orchestra Sinfonica "Rossini" | |
Coro Lirico Marchigiano "Bellini" | |
Associazione Corale Pueri Cantores “Zamberletti” |
Che uno dei capolavori assoluti della storia della musica come Il flauto magico non fosse mai stato rappresentato alle Muse di Ancona, anche in qualche orrida traduzione italiana ottocentesca, è mancanza che si è felicemente provveduto a colmare con l’allestimento andato in scena come inaugurazione della stagione lirica 2023 (purtroppo sempre limitata a due soli titoli). Allestimento che vedeva il debutto in una regia lirica del coreografo Luca Silvestrini, che pure si era presentato nel massimo dorico con lavori di danza contemporanea di una certa importanza: ma certo esordire nella regia d’opera con una composizione come Il Flauto magico è impresa di un certo rischio. Rischio ampiamente superato dalla prova dei fatti, che ci ha restituito uno spettacolo piacevolissimo, lineare e molto godibile nel presentare una chiave di lettura coerente con le tante che può proporre quest’opera.
Fiumi di inchiostro sono stati spesi per descrivere le diverse anime di questo Singspiel perennemente in bilico tra fiaba, illuminismo, naturalismo e fede massonica, con la fusione pressochè perfetta di tutti gli elementi che caratterizzano gli ambiti sopracitati. Silvestrini segue convintamente la strada della fiaba, quella che fa del Flauto uno Zauberspiel dove il magico e il sovrannaturale sono funzionali a incantare i bambini e non solo. La scena fissa, composta da una pedana circolare e due quinte che si aprono a mò di sipario, viene di volta in volta arricchita da elementi scenici che scendono dall’alto a creare gli ambienti dell’azione (Lucio Diana, ormai di casa ad Ancona, compie dei veri e propri miracoli con il presumibile scarso budget a disposizione): gabbie e corde all’ingresso di Papageno, un baldacchino mobile a quello di Sarastro, un letto anch’esso con baldacchino che accoglie il sonno di Pamina insidiata da Monostatos. L’effetto è sicuramente molto gradevole alla vista e soprattutto sempre coerente con l’azione scenica, che scorre nel binario di una solida tradizione da intendersi però nel senso più positivo del temine: non c’è infatti alcuna sciatteria o sensazione di abbandono dei cantanti sul palco, ma una gestione dei personaggi che si avverte molto curata. Illustri precedenti di coreografi al debutto in una regia hanno spesso fatto vedere soluzioni che, a essere buoni, destavano parecchie perplessità, ma in questo caso Silvestrini ha applicato con intelligenza lo strumento della danza al racconto; pregevole la soluzione delle ombre cinesi che mostravano la silhouette dei personaggi su una quinta durante le arie d’amore, i quali poi si rivelavano essere dei “doppi” danzatori durante l’esecuzione, e semplicemente irresistibile tanto l’ingresso di Papageno sotto nugoli di danzatori piumati che gli ballavano intorno e soprattutto il duetto con Papagena, cantato con dei mimi che dietro di loro agitavano a tempo bambolotti raffiguranti i futuri pargoli. Soluzioni in teoria molto semplici da realizzare ma rivelatrici di una idea registica di solide basi concettuali. Contributi essenziali sono poi venuti dai bellissimi costumi di Stefania Cempini, splendenti di colori dorati per sacerdoti e iniziati e di foggia orientale per Tamino, Monostatos e Pamina, in aggiunta a quello veramente da Oscar della Regina della Notte. Parimenti fondamentale il disegno luci sempre a cura di Lucio Diana nel rappresentare l’alternanza luce-tenebre assolutamente fondamentale per quest’opera.
L’opinione sulla parte musicale in questo caso specifico viene molto condizionata dal gusto personale di chi scrive, cosa in teoria non così deplorevole in senso assoluto data l’oggettiva impossibilità di esprimere un giudizio su un’esecuzione musicale totalmente sganciato dalla propria sensibilità. Il discorso però è particolarmente complesso nel caso di Mozart, le cui opere nelle esecuzioni attestate dai dischi hanno conosciuto quasi delle epoche contrapposte (o presuntivamente tali) fra loro. Dal Mozart cosiddetto “di porcellana” degli anni ‘50 e ’60 del secolo scorso, si sarebbe passati a quello “romantico” degli anni ’80 e primi ’90 per poi arrivare a quello “storicamente informato” di fine secolo e a quello “in chiaroscuri” dei giorni nostri, fatto di forti contrasti dinamici e suono più asciutto (categorizzazioni che ovviamente lasciano il tempo che trovano ma che servono a inquadrare la questione). Tutto ciò premesso, ho molto apprezzato la prestazione del direttore Giuseppe Montesano alla testa dell’ottima Sinfonica Rossini, che hanno fatto ascoltare un suono “polposo”, denso e ricco di armonici, con tempi tendenzialmente uniformi ma non per questo letargici, insomma un Mozart “di una volta” che, si ribadisce, a gusto personale è stato assolutamente apprezzabile. Si può certo dire che in alcune scelte si sia anche dovuto fare di necessità virtù, dato che l’orchestra si trovava da affrontare per la prima volta in assoluto quest’opera, ma i due finali d’atto hanno la solennità che meritano, senza corse a perdifiato, l’ingresso di Sarastro lo squillo degli ottoni come si conviene, il canto il sostegno necessario: insomma, un architrave musicale che può o meno piacere ai giorni nostri ma che ha una sua assoluta dignità.
L’apprezzabile scelta di proporre in tedesco sia le parti cantate che quelle recitate, pur con qualche sfrondamento di queste ultime, ha giocoforza creato qualche rigidità interpretativa fra i cantanti, fra i quali solo gli interpreti di Papageno e Astrifiammante padroneggiavano la lingua. Ne ha fatto le spese soprattutto il Tamino di Antonio Garès, preoccupatissimo di articolare il testo e perciò un pò carente sul piano del fraseggio. In particolare l’aria di sortita “Dies Bildnis ist bezaubernd schön” è risultata abbastanza monocorde e con il registro acuto che suonava alquanto tirato. Si è poi sciolto man mano, in modo da valorizzare meglio il bel timbro e la perfetta presenza scenica. Timori meno accentuati per la Pamina di Maria Laura Iacobellis, che già nel duetto con Papageno ha mostrato un bagaglio tecnico di suoni legati, diminuiti e rinforzati e una bella espansione vocale, tali che l’aria “Ach, ich fühl's” è stata risolta con grande partecipazione emotiva e un afflato lirico di grande presa. Papageno era Levent Bakirci, e lo era nel timbro brillante, nell’espressività guascona e nell’irresistibile presenza scenica; la padronanza della lingua si è poi ben sentita tanto nelle parti recitate quanto in quelle cantate, culmine l’aria “Ein Mädchen oder Weibchen wünscht Papageno sich!” e l’irresistibile duetto con Papagena. Discorso analogo per la Regina della Notte di Brigitta Simon; magari i fa sopracuti di entrambe le arie non saranno stati sfolgoranti, ma tale è stata la varietà del fraseggio a rendere ora la madre accorata ora la donna vendicativa, e con voce per nulla filiforme, che la resa di poche singole note passa tranquillamente in secondo piano. Ferratissimo tecnicamente lo Sarastro di Abramo Rosalen, che sprofonda ai fa gravi di “O Isis und Osiris” e affronta i salti di tonalità di “In diesen heil'gen Hallen” senza alcuno sforzo apparente. Valore aggiunto anche per lui l’indiscutibile presenza scenica, valorizzata dallo splendido costume dorato. Precise e di ottima amalgama vocale e scenica le tre dame di Khatia Jikidze, Sarah Hakobyan e Nutsa Zakaidze; bravissimi nei loro personaggi e senza scadere nel macchiettistico la Papagena sicura di Jennifer Turri e il puntuto Monostatos di Carmine Riccio, oltretutto con voce di una certa sostanza nell’aria “Alles fühlt der Liebe Freuden”. Belle voci quelle di Alessandro Fiocchetti e Alessandro Ravasio, ma per i personaggi tutt’altro che marginali dell’Oratore, dei Sacerdoti e degli Armigeri ci sarebbe voluto un accento più incisivo. Sorprendenti per intonazione e precisione i tre fanciulli di Sofia Cippitelli, Caterina Piergiacomi e Giovanni Tartufoli, che la regia colloca con bell’effetto su una pedana mobile in pose canoviane.
Il Coro Lirico Bellini, per l’occasione guidato da Riccardo Serenelli, pur a ranghi ridotti è uscito a testa alta dal difficile cimento, distinguendosi sopratutto nei difficili finali d’atto. Il numeroso pubblico ha tributato un franco successo a tutta la compagnia e ai responsabili della parte scenica. La speranza è che questo allestimento possa girare per altri teatri, perché ne è sicuramente meritevole.
Domenico Ciccone