Teti, Nisa, Lincastro, Euridice | Cecilia Molinari |
Fato, Fileno | Renato Dolcini |
Ebro, Giove | Alexander Miminoshvili |
Aurora, Fosforo | Gaia Petrone |
Tre Euretti | Cecilia Molinari, Rosina Fabius, Magdalena Pluta |
Orfeo | Juan Francisco Gatell |
Mercurio, Bacco | Kacper Szelazek |
Ireno, Apolline | Emiliano Gonzales Toro |
Furore, Caronte | Salvo Vitale |
Calliope | Magdalena Pluta |
Regia | Pierre Audi |
Scenografia | Christof Hetzer |
Costumi | Robby Duiveman |
Luci | Bernd Purkrabek |
Les Talents Lyriques | |
Christophe Rousset | |
Regia Video | Misjel Vermeiren |
1 BRD NBD0111V | |
NAXOS | |
Ducale Distribuzione |
Favolacce, forse il più bel film italiano degli ultimi anni, si conclude con una cover della Passacaglia della vita, canzone attribuita, con qualche dubbio, a Stefano Landi. La prima uscita in CD di questa ballata risale agli esordi della casa discografica francese Alpha con un album del 2004 dedicato a Stefano Landi, Homo fugit velut umbra, che vedeva Marco Beasley alla voce accompagnato dall’ensemble Arpeggiata di Cristina Pluhar. Il compact ebbe un successo clamoroso nell’ambito degli appassionati di musica antica, tra i quali c’era forse anche Franco Battiato che ne fece una cover interessante ampliandone la popolarità, fino a raggiungere il film dei fratelli d’Innocenzo in cui, in una nuova versione di Rosemary Standley, colora di tinte stranianti un finale già di per sé sconvolgente. A tutt’oggi le visualizzazioni su YouTube di Battiato sono più di 800.000, ma non raggiungono il 1.100.000 di quelle di Beasley. Numeri rilevanti per un pezzo così antico, ripescato insieme ad altri dello stesso autore in piena era di riscoperta della musica barocca. Landi conquistò grande fama tra i contemporanei proprio attraverso questa produzione più popolare, essendo allo stesso tempo uno dei massimi compositori romani della prima metà del Seicento, soprattutto di musica sacra. Compose in tutto due sole opere, per prima La morte di Orfeo cui fece seguito Il Sant’Alessio, replicato per tre anni consecutivi alla corte dei principi Barberini, con scenografie di Gian Lorenzo Bernini e decori di Pietro da Cortona. Nonostante tutto quanto si conosca della sua opera desti ammirazione, la discografia di Landi è ancora molto scarna. L’exploit di Homo fugit non ha evidentemente incoraggiato ulteriori investimenti. Per fortuna la Dutch National Opera ha proposto nel suo cartellone una interessante produzione di questo lavoro, documentato in BRD Naxos ripreso durante due recite al Muziekgebow di Amsterdam nel marzo 2018.
La Morte di Orfeo rappresenta la parte conclusiva del mito. Orfeo, tornato dagli Inferi, vuole festeggiare il suo compleanno. Invita tutti gli dei tranne Bacco, di cui teme le intemperanze. Questo gli costerà la vita perché il dio respinto gli scatenerà contro Furore e le Menadi che lo ridurranno a pezzi. Secondo lo stile fiorentino, che Landi muterà già nel successivo Sant’Alessio, l’opera è in cinque atti, ciascuno con coro finale. Prevalgono recitativi e ariosi, con un numero assai ridotto di arie, in tutto tre.
La parte musicale di questa produzione è eccellente. Christophe Rousset, a capo dei Talens Lyriques, è uno dei massimi interpreti del melodramma secentesco. Mai monotono, sensibile ai diversi stili e forme, rende vivi i suoi strumentisti dando un colore particolare ad ogni accompagnamento. In mano sua recitativi e ariosi prendono forza proprio per la varietà delle intenzioni di un’orchestra che tesse un filo narrativo profondo, capace di chiarire stati d’animo che vanno dal dolore più intimo alla furia più scatenata.
La compagnia di canto è molto numerosa, con venti ruoli suddivisi tra dodici solisti, tutti all’altezza del compito. Il ruolo di Orfeo è affidato al tenore argentino Juan Francisco Gatell. Un po’ sottotono all’inizio, cresce con lo sviluppo dell’azione rendendo più rotonda la voce, dapprima aspra e povera di armonici. Con l’assestamento vocale migliora anche l’espressività e la resa del personaggio che nel quarto e quinto atto assume lo spessore che gli compete. Il mezzo-soprano Cecilia Molinari si divide in quattro: Teti, Nisa, Lincastro ed Euridice, inoltre è uno dei tre Euretti, titolari di un terzetto meraviglioso (primo atto, Su su, dall’oriente) accompagnato dalla tiorba e dal flauto. Con un numero così consistente di personaggi, la Molinari percorre l’intera opera e ne rappresenta il sostegno vocale, sempre impeccabile nello stile e nella resa del testo grazie alla pronuncia perfetta e al naturale canto sulla parola. Renato Dolcini ha in dote il momento più commovente dell’intera opera quando, nei panni di Fileno, racconta a Calliope, madre di Orfeo, la morte del figlio. Con la sua bella voce di baritono intona, pianissimo, e accompagnato solo dalla tiorba e dalla viola da gamba, i primi versi di un lungo monologo in forma di recitar cantando. Con strazio trattenuto descrive la morte del semidio come se fosse la fine della musica stessa, quando la morte del canto porta alla morte dell’anima. È un pezzo magistrale di teatro musicale che Dolcini ha onorato rendendolo indimenticabile. Meno convincente Magdalena Pluta (Calliope), un po’ sopra le righe, forse per contrasto con la compostezza così patetica del baritono. Il basso-baritono Alexander Miminoshvili, di buona presenza scenica e ottima padronanza della lingua italiana, impersonava Ebro (con vestaglia blu come l’acqua del fiume) e poi Giove (in vestaglia d’oro), entrambi detentori del potere espresso più con l’autorità del canto che con i movimenti suggeriti dalla regia. Gaia Petrone è un mezzo soprano molto interessante, impegnata sia come Aurora che come Fosforo, credibile e incisiva in entrambe le caratterizzazioni. Kacper Szelaźec, controtenore polacco, ha in dote due personaggi tra il buffo e il grottesco: Mercurio e Bacco. Li sostiene con una buona verve e un discreto stile, benché la qualità della sua voce, puntuta e a volte aspra, non sempre aiuti. Emiliano Gonzales Toro, uno dei migliori tenori del momento nel repertorio sei-settecentesco, è uno splendido Ireno nel bel duetto con Lincastro (Cecilia Molinari), ed anche Apolline, padre di Orfeo. La voce calda si esprime fluida nel recitar cantando, appoggiata su parole che prendono vita sulle ragioni della musica abbellita, con leggerezza, da virtuosismi portati con una facilità sorprendente. Nel quinto atto appare Caronte, un relitto umano poco conciliante, unto e bisunto. Ha in custodia, oltre alle anime dei morti, anche una ballata deliziosa su un ritmo danzante, una di quelle canzoni che a Stefano Landi riuscivano così bene: Bevi sicuro l’onda. Accompagnato dalla tiorba, il basso Salvo Vitale l’ha interpretata con divertita ironia, in fondo sta consigliando a Orfeo una droga molto pesante, l’acqua del fiume Lete che cancella tutti i ricordi.
La regia teatrale di Pierre Audi non aggiunge niente e forse toglie qualcosa. Scene e costumi, brutti, risultano ancora più fastidiosi perché l’alta definizione evidenzia tutti i difetti di fabbricazione. La regia video di Misjel Vermeiren è anonima, si limita a inquadrare da vicino chi canta e da lontano i cori. Non ci mostra mai l’orchestra ed è un peccato perché la relazione tra strumentisti e cantanti in queste opere è molto stretta, e osservarla da vicino è sempre interessante.
Le note di copertina sono minime e manca il libretto. Per fortuna i cantanti sono così attenti alla dizione da renderlo, per chi sa l’italiano, superfluo.
Daniela Goldoni