Il Festival di Utrecht, con la consueta efficienza, ha pubblicato i numeri della trentottesima edizione. Più di 70.000 spettatori (qualcosa in meno rispetto al 2018) ma un aumento nelle vendite dei biglietti (+5%). Quella che appare una contraddizione si spiega con un calo delle presenze nella fascia dei concerti gratuiti (circa 70) dovuto a location meno capienti rispetto agli anni precedenti. Nei dieci giorni del festival abbiamo sempre visto le sale piene, benché quasi esclusivamente di olandesi. L’impressione è che questo festival, così aperto nell’accogliere ed invitare artisti internazionali, non riesca ad uscire dai confini dell’Olanda per quello che riguarda il pubblico. Altro limite, purtroppo condiviso da quasi tutti i palcoscenici internazionali, è la mancanza di spettatori giovani, nonostante le agevolazioni di cui potrebbero avvalersi (biglietti a 10 euro). I ragazzi sono tutti sul palco a suonare e cantare come meglio non si può per una popolazione di anziani, destinata alla naturale estinzione, per la quale non si intravvede un ricambio generazionale.
Il tema dell’anno, Napoli, tra i più sfuggenti per le infinite rappresentazioni che questa città dà di sé stessa, è stato rispettato con rigore, a differenza di altre edizioni in cui abbiamo assistito a qualche deviazione, ad esempio nell’anno dedicato alla Riforma Protestante abbiamo ascoltato fiumi di musica della Controriforma. Ma Napoli ha talmente tanto da offrire che il problema semmai era di abbondanza. Il sottotitolo “capitale della musica dimenticata” o “capitale dimenticata della musica” è stato anche rispettato, molte sono state le rarità e le prime esecuzioni in tempi moderni, ad opera soprattutto degli ensemble italiani che continuano a lavorare sia sulla ricerca che sull’interpretazione. I due artist in residence, Giulio Prandi e Marco Mencoboni hanno seguito il filone della grande musica religiosa con cinque magistrali concerti dedicati a messe e altre funzioni, mentre quattro programmi incentrati sui riti della Settimana Santa, tutti di qualità eccellente, hanno costituito una specie di piccolo festival nel festival. Anche gli Stabat Mater sono stati molto presenti, addirittura cinque in un solo giorno, tutti di autori diversi.
L’opera invece è stata quasi dimenticata ed è un peccato perché è parte costituente del repertorio del Settecento, così come la musica strumentale. In particolare ci è sembrata ristretta la parte dedicata al clavicembalo. È vero che ha avuto uno spazio continuo con una serie di concerti quotidiani, affidati a numerosi interpreti alle prese con altrettanti autori, ma non nego che ci saremmo aspettati qualcosa di spettacolare come una maratona Scarlatti, che coinvolgesse una quantità di clavicembalisti di tutte le scuole e di tutti i paesi.
I concerti esauriti da subito e che hanno riscosso i maggiori entusiasmi sono stati quelli della Napoli di strada, con le canzoni, i ritmi, le tarantelle, quelli capaci di evocare la città calda e colorata che tutti sognano, soprattutto nel grande Nord.
Il tema del 2020 è già stato scelto, più fluttuante perché non legato strettamente ad un’area geografica: Ars Rethorica – Let’s talk. La parola, ci sarà ancora molta musica italiana?
Gli spettacoli seguiti da OperaClick:
- Passeggiata napoletana (concerto di apertura [3])
- Passio Secundum Marcum [4]
- Friend's concert majestic vocal interplay [5]
- La Vergine napoletana [6]
- Responsoria [7]
- X 4 Stabat Mater [8]
- La Renaissance napoletana sotto gli Aragona [9]
- Farinelli! Farinelli! [10]
- Daedalus Ensemble [11]
- I Vespri solenni della Napoli spagnola [12]
- Missa per i morti [13]
- Responsori [14]
- Voci di donne: Andreana Basile, Giulia De Caro, Anna Maria Scarlatti [15]
- La Pazza [16]
Daniela Goldoni