Massimo Mila descrive l’opera, con pochi tratti, in maniera esemplare e compiuta e noi, perfettamente d’accordo, ne riportiamo con piacere alcuni stralci: ”Ernani segna il passaggio di Verdi dall’opera corale alla romantica opera a personaggi…perché urge in Verdi l’alta vocazione del creatore di grandi figure tragiche…figure elementari, tutte d’un pezzo, che non conoscono sfumature…sono individui interamente occupati da passioni smisurate che li spingono l’uno contro l’altro. Egli volge tutta la sua attenzione a sottolineare fragorosamente l’esteriorità di violenti effetti scenici, intendendo la drammaticità nella sua più volgare accezione di grandi e bruschi colpi di scena, sorprese, duelli, ferimenti, agnizioni, morti, congiure, tutto davanti agli occhi esterrefatti dello spettatore”. I personaggi, quindi, soffrono lo strazio della separazione, le grandi fiammate di passioni amorose e interpretano la fierezza e la dignità dei giuramenti in maniera monolitica. Oggi l’opera suona un tantino bislacca ma certamente non più del dramma di Victor Hugo da cui essa origina, mantenendone tuttavia l’energia prorompente e vigorosa con in più una eccezionale ricchezza melodica.
Ádám Fischer è concertatore esperto, di scrupolo musicologico, e non dimentica che questa energia prorompente e vigorosa, da romanzo d’avventura ottocentesco, è la cifra interpretativa più evidente da sottolineare. Magari non mostra estri particolari, soprattutto negli accompagnamenti al canto, condotti uniformemente in maniera assai spedita, a nostro parere un po’ troppo baldanzosi. Dovrà convenire, suo malgrado, che qui alla Scala, i ricordi di concertazioni splendide del passato si ergono incombenti su tutti i successori e richiamano qua e là ineludibili confronti. Discreta routine quindi, non necessariamente negativa, con dinamiche sufficientemente frastagliate (negli articolati finali d’atto, soprattutto nel settimino in chiusura del primo, iniziato sottovoce e terminato in un crescendo grandioso), contrasti rispettati (lo stile piano, amoroso e delicato, che caratterizza l’intervento di Carlo nel duetto “Da quel dì che t’ho veduta” in opposizione allo stile ritmato, sdegnato e fiero della risposta di Elvira o lo stacco determinato dallo “stile a sbalzo” dell’aria di Carlo “Lo vedremo, veglio audace” tutto sdegno e puntature all’acuto in antitesi al lento riluttante incedere della replica di Silva). Passionalità da un lato (andante assai mosso quasi allegro che cesella con fierezza l’attacco del terzetto “Oro, quant’oro ogni avido”) con abbandoni sognanti (andantino “a due”, in cui l’accompagnamento “da camera” avvolge i due innamorati con sufficiente dolcezza) e malinconici ripiegamenti dall’altro (l’addolorato andante dell’aria di Silva), con una evidente spruzzata di patetismo e commozione che non guasta (in genere gli interventi di Ernani, soprattutto nel “Solingo, errante, misero”, nel “quel pianto, Elvira, ascondimi” o nel “Vivi…d’amarmi e vivere…”). Ma è convincente anche nei colori orchestrali che sa sviluppare - cupi, lugubri e misteriosi – nel largo con cui principia il terzo atto per descrivere i sotterranei sepolcrali, testimoni della congiura.
Francesco Meli è Ernani, eroe romantico infelice e perdente di tipo donizettiano. Ha dizione chiara, timbro piacevole, espressività che trascolora dal lirico al drammatico, dalla fierezza alla commozione. Si percepisce un po’ di vibrato largo nelle puntate all’acuto, così che i La e i Sibemolle risultano poveri di squillo ma ciò non inficia la resa complessiva. La cavatina di apertura sottolinea il carattere di un uomo tormentato dai ricordi terribili, nostalgico, malinconico eppure fiero ed orgoglioso. Premuroso e speranzoso di gioie future e durature nella cabaletta, che varia nella ripresa con colorature di buona fattura. Geloso ed appassionato nello sdegno nel terzetto “Me conosci?...Tu dunque saprai” e nel finale primo “Io tuo fido?”. Generoso e nobilmente fiero nel terzetto del secondo atto e nel “Io son conte, duca sono”. Delicato nelle mezze voci a fior di labbra con cui duetta con Elvira nell’andantino “Ah, morir, potessi adesso” e decisamente commovente nella patetica scena della morte.
Luca Salsi, reduce dal trionfale successo a Parma in Macbeth, cantato solo due giorni fa, strappa applausi a scena aperta anche questa sera nel ruolo assai complicato di Don Carlo. Ha gran bella voce, armonici che “corrono” rigogliosi ma che finiscono per ridimensionare l’espressività che definiremmo non del tutto a fuoco. Un re un po’ troppo rozzo, in sostanza poco nobile, con acuti più corposi che luminosi. Più convincente come innamorato prepotente e scontroso che delicato ed affettuoso. Ha accento vibrante nel terzetto “Tu sé Ernani!...mel dice lo sdegno”. Nell’aria “Lo vedremo, veglio audace” riesce bene nella fremente indignazione, mentre qualche insicurezza la palesa nella cabaletta “Vieni meco, sol di rose” le cui mezze voci hanno poco fascino. Tuttavia nel recitativo “Gran Dio!” e nell’aria “Oh, dé verd’anni miei” sa essere nobile e fiero, come di chi finalmente ha piena consapevolezza del ruolo maestoso e regale. Nel concertato del terzo atto infine sa persuaderci di una sua qual umanità, trasformandosi in un uomo generoso e magnanimo prima ancora che grande imperatore.
Don Ruy Gomez de Silva sembrerebbe solo il ruolo di un feroce ed irremovibile vendicatore, granitico nella sua ossessiva gelosia e fedeltà ai patti, pure Ildar Abdrazakov ne fa un personaggio di ben altra consistenza, più sfaccettato, meno banale e tutto grazie ad una emissione morbida, sul fiato, di grande espressività. Certo, non è voce tonitruante ma di fronte a tanta fantasia e ai tanti colori esibiti proviamo molta ammirazione. Sdegno misto ad accento addolorato, eppure fiero e leale ai principi dell’onore rendono più umana l’aria “Infelice !... e tuo credevi”. Fierezza e marzialità che insuffla pure nella ripristinata cabaletta “Infin che un brando vindice” (aggiunta da Verdi nell’autunno del 1844 a Milano) ma anche nel terzetto del secondo atto, mentre nella stretta seguente il furioso vendicatore si stempera in accenti carichi di aristocratica dignità. Dignità che perde per un momento nell’affranto ed implorante “io l’amo…al vecchio misero”, a dimostrazione che anche gli uomini tutti d’un pezzo hanno un’anima e cedono ai sentimenti. Torna però incrollabile e spietato nel finale dell’opera osservando il suicidio di Ernani e la disperazione di Elvira.
Ailyn Perez non è un soprano drammatico con quel timbro di porcellana e centri e gravi di poca consistenza. Ha subito delle contestazioni alla fine dello spettacolo che non condividiamo per nulla. Non sarà un soprano verdiano ma è musicale, con gli attributi del “bel canto” sufficientemente ben oliati: fiati, scale, picchiettati, trilli, filati, mezze voci e colorature discretamente fluide, con proiezioni all’acuto (tanti Do) brillanti. Una Elvira appassionata, piena di giovanile ardore, anche lei fiera ed orgogliosa, come nel rifiuto alle profferte d’amore di Carlo. Stacca il suo “Ernani!...Ernani, involami” come una ballata piena di speranza, cantata da una dolce fanciulla sinceramente innamorata del suo principe azzurro. In un certo qual modo briosa nella esibizione di un coraggio virile nella cabaletta. Ma comunque è convincente sia come virginale promessa sposa sia nello slancio vibrante con cui tiene testa agli altri due spasimanti. E non si può negare che smuova alla commozione nel tragico finale, in cui assiste, resistendo come può, all’inesorabile compimento del destino.
Bruno Casoni dirige il coro con proverbiale magistrale abilità. Un coro che si riallaccia a opere precedenti, di Verdi in primis ma anche al Pirata belliniano, con in più una maggiore vitalità melodica e ritmica. E sono credibili questi banditi, che all’inizio gozzovigliano vivacemente in una tipica ribalda “chanson à boire” - per nulla triviale questa sera - senza dimenticare il loro capo, immerso in tristi pensieri amorosi. Bello il continuo oscillare dalle accensioni briose - dal ritmato vigoroso, qua e là anche marziale - ai ripiegamenti in piano, che del resto sono la caratteristica degli interventi del “tutti” qua e là disseminati per buona parte dell’opera. Eccitato e grandioso il finale primo, velocissimo in crescendo di fierezza il finale secondo, potente nell’esaltazione regale il finale terzo. Vivace nella polka che introduce il secondo atto. L’andante sostenuto del celeberrimo “Si ridesti il Leon di Castiglia” con mezze voci, mezzo forte e pianissimi si srotola con efficacia fino ad un finale anch’esso carico di orgoglio e dignità. Nel quarto atto, la brillantezza del ritmo di bolero esalta, sottovoce, il gaudio festoso per le agognate imminenti nozze. E non dimentichiamo il contributo del coro femminile, che accompagna l’ingresso in scena di Elvira, a ritmo di bolero, vispo e giubilante, anche se non dissimula una certa invidia per la sorte della padrona.
Corretti gli interventi dei comprimari: Daria Chernyi, che Bechtolf azzoppa, nel ruolo di Giovanna, Matteo Desole in quello dello scudiero del re Carlo, un Don Riccardo un po’ enfatico e Alessandro Spina, scudiero di Don Ruy Gomez de Silva.
Sven-Eric Bechtolf è il responsabile della messa in scena. La sua regia è tradizionale, con un risaputo “teatro nel teatro”. Crediamo che agli occhi di noi contemporanei il dramma sia di per se alquanto poco credibile, tuttavia se l’ironia esibita sconfina provocatoriamente nel ridicolo non è accettabile. La nutrice di Elvira è zoppa e sgradevole. Lo spadone smisurato che Silva abbranca con evidente difficoltà? Tanto per sottolineare che questo vegliardo vorrebbe sfidare gli altri pretendenti alla mano di Elvira ma oramai farebbe bene ad aspirare solo alla pensione?
Le coreografie, ma in questo diamo la colpa anche a Lara Montanaro, sono banali ed eccessivamente briose, con un accenno di can-can (all’inizio del secondo atto) che vorrebbe stemperare con un sorriso la corrusca atmosfera dell’opera. Una tavolata alla corte di Silva contornata esageratamente da un numero esorbitante di donne (ha un harem con Elvira come preferita?). L’apparizione di angeli con relative ali bianche immacolate e lumino d’ordinanza durante l’andantino “a due” Elvira-Ernani. Don Carlo che nella scena dei sepolcri si nasconde nella tomba di Carlo Magno somigliante più ad un armadio a muro nonostante sia sormontato da una statua equestre enorme. La congiura finisce male con i congiurati circondati non dagli armigeri fedeli all’imperatore, come logica vorrebbe, ma da un nugolo di donne, in seguito assai festanti. Il clou della serata tuttavia lo si tocca nel breve intervallo tra il terzo e il quarto atto quando inopinatamente escono le ballerine del suddetto can-can con dei cartelli con scritto: “breve interruzione” (come le bellocce negli intervalli tra un round e l’altro di pugilato?). La qual cosa ha scatenato una pioggia di “buuuu” e di “vergogna” che avrà sconcertato gli autori della messa in scena, ma ahimè anche noi poveri spettatori. Da ultimo, l’inizio del quarto atto vede la grande festa nel palagio di Don Giovanni d’Aragona celebrata da un tripudio delle solite numerosissime donne, vestite con colori sgargianti, più consono alla festa scollacciata alla corte del Duca di Mantova che non per un romantico matrimonio tra nobili. Se aggiungiamo che non vi sono particolari indicazioni registiche per i cantanti e che il coro fa la bella “statuina” non esageriamo se affermiamo di aver provato una sostanziale delusione mista ad irritazione.
Julian Crouch è l’autore delle scene, con quinte dipinte, un tantino miserine: panorami montani, colonne e archi per la casa di Silva, con lettone per Elvira e tavolata enorme per le nozze. Statue equestri e tombe per i sotterranei in Aquisgrana, un simil Teatro Olimpico di Vicenza (che esagerazione) per la sontuosa dimora di Don Giovanni d’Aragona. Kevin Pollard è l’autore degli eleganti e colorati costumi. Le luci sono di Marco Filibeck.
La rappresentazione è stata accolta con successo, con calore particolare per Meli, Salsi ed Abdrazakov, un po’ meno per Fischer. Mentre la povera Perez e tutti i responsabili della messa in scena sono stati fatti oggetto di sonore contestazioni. Immeritate quelle al soprano, dispiaciutissima, giustificate quelle indirizzate al regista, la cui ironia non ha evidentemente trovato estimatori.
La recensione si riferisce alla prima del 29 settembre 2018.
Ernani | Francesco Meli |
Don Carlo | Luca Salsi |
Don Ruy | Ildar Abdrazakov |
Elvira | Ailyn Pérez |
Giovanna | Daria Chernyi |
Don Riccardo | Matteo Desole |
Jago | Alessandro Spina |
Direttore | Ádám Fischer |
Regia | Sven-Eric Bechtolf |
Scene | Julian Crouch |
Costumi | Kevin Pollard |
Luci | Marco Filibeck |
Video Designer | Filippo Marta |
Coreografia | Lara Montanaro |
Maestro del Coro | Bruno Casoni |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala |
Ugo Malasoma