Negli ultimi giorni di questo annus horribilis la bellezza della musica fortunatamente non è mancata. Non è stato difficile infatti intercettare nei palinsesti televisivi un buon numero di eventi d’occasione, necessari sia per celebrare coraggiosamente la fine di questo sciagurato 2020 che come speranzoso viatico per un 2021 decisamente migliore in tutto.
A dirla tutta, il concerto di San Silvestro è sempre un evento un po’ in ombra rispetto ai concertoni di Capodanno, che hanno ben più ampia risonanza mediatica, ma chi sa cercare nelle programmazioni può trovare anche vere e proprie perle musicali.
Ne è un buon esempio il Concerto di San Silvestro del LAC di Lugano, che propone in diretta streaming un ennesimo gradito omaggio a Beethoven, a degna conclusione anche delle celebrazioni per il 250mo anniversario dalla nascita del genio di Bonn. La grande pianista argentina Martha Argerich, accompagnata dall’Orchestra della Svizzera Italiana diretta da Ion Marin, esegue il Concerto n. 2 op. 19 di Beethoven, seguito dalla Sinfonia n. 5 D 485 di Schubert.
Beethoven, ma anche Schubert quindi: un accostamento sempre foriero di analisi e riflessioni senza fine sul rapporto tra i due compositori.
Durante l’arco della loro vita si può dire che l’uno stesse all’altro come le 33 variazioni su un Valzer di Anton Diabelli op. 120 stanno all’unica paginetta che Schubert riuscì ad inserire nella raccolta di variazioni che l’editore Diabelli propose ai compositori austriaci nel 1819 sul proprio valzer.
Dopo la loro morte, avvenuta ad un anno di distanza l’uno dall’altro, e soprattutto dopo la scoperta e la rivalutazione di Schubert nella seconda metà dell’Ottocento, molto si è discusso sulla diversa grandezza di entrambi: il tema del “come” e del “quanto” Schubert abbia assorbito da Beethoven, pur sembrando restare nell’alveo di un classicismo rispettato e venerato, è altrettanto vasto di quello del ripiegamento dell’ultimo Beethoven verso un pensoso lirismo, alieno dall’imperioso impulso che in altri anni aveva portato la sua musica ad una modernità sconosciuta ai contemporanei.
Nei lavori presentati in questa serata sembra che i due genî si incontrino su un terreno comune: non si tratta solo della stessa tonalità (si bemolle maggiore), o della giovane età dei compositori al momento dell’atto creativo, quanto del percettibile ossequio al passato, del guardare deferenti al modello mozartiano in primis, e ad Haydn. In Beethoven, questo volgersi indietro è solo un atto necessario alla propria affermazione di musicista: è inevitabile vedere nella musica del giovane Ludwig, anche quando egli imita Mozart o Haydn, un ponte gettato verso un nuovo linguaggio, avvertibile qui nel virtuosismo smagliante della parte pianistica e nella sua dialettica serrata con l’orchestra. Ma mentre per Beethoven il Terzo concerto per pianoforte e orchestra, dal linguaggio più tipicamente “beethoveniano”, è ancora di là da venire, nel giovanissimo Schubert invece l’ossequio al modello è un dietro front deliberato, in quanto questa apollinea Quinta Sinfonia viene dopo una Quarta (la “Tragica”) in cui si agitano oscure forze irrazionali e più che embrionalmente romantiche.
Questa serata luganese offre comunque un altro forte motivo di interesse, oltre ad un programma ricco di assonanze interne. E’ d’obbligo infatti soffermarsi sull’eccezionalità della presenza di Marta Argerich, peraltro una habitué del LAC, e di casa a Lugano sin da quando, circa vent’anni fa, inaugurava proprio qui il progetto artistico che porta il suo nome.
Il Secondo di Beethoven, insieme al Terzo e soprattutto al Primo (quest’ultimo eseguito già a soli otto anni), è una vecchia conoscenza della Argerich ed è senz’altro uno dei suoi concerti preferiti, mentre ben più raramente la si vede impegnata negli altri (senz’altro più famosi). Non è chiara la ragione di questa preferenza e chi si accinge a scriverne è costretto ad indovinare, come la storia di manzoniana memoria. Si può tuttavia ipotizzare che lo spessore drammatico del Quarto e la monumentalità del Quinto lascino probabilmente meno spazio al gioco, al divertimento, alla componente rapsodica dell’interpretazione, elementi cui la pianista argentina assegna indubbiamente capitale importanza nella sua missione di artista.
Del resto nelle apparizioni degli ultimi anni capita spesso di vedere Martha Argerich letteralmente divertirsi suonando. Quando si siede frettolosamente alla tastiera, quasi per rifuggire tutto ciò che intorno e al di fuori di questa possa turbarla, la si vede davvero giocare con la meccanica del pianoforte e la carta degli spartiti: il Primo concerto di Liszt o il Concerto di Ravel sono come campi aperti, sfolgoranti di colori da ricercare, scoprire e cogliere qua e là, con fanciullesca emozione, un po’ come faceva il vecchio Horowitz. A monte di ogni cosa, oltre all’eccelsa sensibilità musicale, vi è una tecnica ancora sfavillante e naturale come rarissime volte è capitato di vedere. Non c’è sforzo, non c’è quasi consapevolezza della propria abilità, di quella facilità che in altri tempi le consentiva “di farsi largo tra le difficoltà pianistiche come un marine si apre la strada con le bombe a mano” (così la descriveva un critico un po’ perfido ma estremamente acuto). Oggi quella combattente non c’è più, la guerra è stata vinta da un pezzo, ma è rimasta quella gioiosa capacità di tirar fuori l’ennesima sorpresa dal pozzo delle proprie immense risorse, con il virtuosismo di sempre.
Beninteso: Martha Argerich non procede alla maniera di Glenn Gould, cambiando le regole strada facendo. Il suo modo di essere pianista non prescinde mai da un onnipresente canovaccio di correttezza e rigore. Su questo tuttavia si innestano una varietà timbrica e un controllo delle dinamiche che testimoniano un gusto infallibile e una fantasia inesauribile: risultato di una estrema naturalezza unita all’esperienza stratificata di una vita dedicata allo strumento.
Tutto ciò si traduce in un’esecuzione di questo Concerto op. 19 dominata nel primo movimento da una leggerezza e da una mobilità affascinanti, a tratti scopertamente femminee. Deliziosi gli accenti sulle numerose sensibili, così come le turbinose quartine sgranate senza fretta, con tocco robusto ma paradisiaco. La cadenza, non di facile esecuzione e poeticamente assai complessa, è affrontata con relativo distacco, obliterandone in qualche modo gli accenti più cupi.
Il secondo movimento, già di per sè un pezzo ispiratissimo, è impreziosito da una esecuzione assai delicata della breve cadenza. Bellissimi inoltre i recitativi finali, in cui le note divengono parole appena sussurrate ed appese ad un filo invisibile.
Il Rondò è condotto con la medesima nonchalanche già percepita nel primo movimento. Gli accenti in controtempo non sono marcatissimi, ed in generale gli interventi del pianoforte, anche nelle veloci figurazioni a mani parallele, non sono mai imperiosi. Perfetto e misuratissimo è il trillo di terze nel finale. C’è molto Mozart e Haydn non solo nello spirito della composizione, ma anche nell’approccio interpretativo della grande pianista argentina.
L’accompagnamento orchestrale brilla per equilibrio ed eleganza. L’Orchestra della Svizzera Italiana, sotto la bacchetta di Ion Marin, assolve in modo eccellente al proprio compito, stemperando laddove neccessario anche le ruvidità insite in alcuni temi beethoveniani.
Il medesimo apprezzabile livello si riscontra anche nell’esecuzione della Quinta Sinfonia di Schubert, condotta con equilibrio e consapevolezza dell’eredità mozartiana, ma anche con adeguata verve quando serve, come nel tema perentorio del terzo movimento, chiaramente ispirato all’analogo della Sinfonia K 550 (la citazione mozartiana diventa scoperta poi nell’incipit del secondo movimento). Robustezza e precisione si percepiscono anche negli episodi più brillanti, come nel drammatico episodio in minore dell’Allegro vivace finale, mentre invece il primo movimento, pur eseguito con grazia, rimane leggermente meno definito e risolto nel fraseggio; si sconta qui probabilmente la ben celata difficoltà della partitura schubertiana, con la frase iniziale che prepara il tema principale, ma senza fungere da introduzione, l’elaborazione del secondo tema, le incertezze tra tonalità minori e maggiori. Molto più centrato invece l’Andante con moto: troviamo qui compiutamente realizzata quella fusione tra lo spirito mozartiano e le inquietudini tipiche dello Schubert più maturo; il tutto avvolto da una calma e da un respiro lungo ben evocato dall’ampio e morbido gesto di Marin. E’ proprio questa pagina, più di ogni altro momento di questa stupenda sinfonia, a ricordarci la commovente annotazione di Schubert sulla musica di Mozart, le cui magiche melodie “nelle tenebre di questa vita ci mostrano un avvenire sereno e luminoso a cui aneliamo con fede”. In questo momento particolare della vita di tutti, non potrebbero esserci parole più appropriate per formulare, insieme alla musica di questo concerto luganese di San Silvestro, il miglior augurio di buon anno.
La recensione si riferisce alla diretta streaming del 31 dicembre 2020.
Pianoforte | Martha Argerich |
Direttore | Ion Marin |
Orchestra della Svizzera Italiana | |
Programma | |
Ludwig van Beethoven | Concerto per pianoforte e orchestra nr. 2 in si bemolle maggiore op. 19 |
Franz Schubert | Sinfonia nr. 5 in si bemolle maggiore D 485 |
Lorenzo Cannistrà