È sin troppo facile notare quanto, col senno di poi, si sia rivelata involontariamente opportuna all'epoca la scelta di inserire nel cartellone primaverile fiorentino l'antico e glorioso allestimento di Rinaldo di Händel che Pierluigi Pizzi creò per il Teatro Valli di Reggio Emilia nel 1985 e che negli anni è stato più volte ripreso da molti teatri italiani. Mai da quello di Firenze, tuttavia, dove lo stesso titolo era inedito fino alla riapertura della sala principale del Teatro del Maggio all'opera, dopo la lunga chiusura dovuta alla pandemia.
Spostato dalle previste date di marzo alla prima metà di settembre, lo spettacolo si è adattato senza particolari problemi alle vigenti norme sul distanziamento, caratterizzato com'è da carri che entrano ed escono a occupare una scena fissa trasportando i personaggi che tra loro interagiscono poco e comunque sempre a debita distanza. Un Rinaldo solo apparentemente didascalico, quello di Pizzi, in realtà volutamente metafisico e quasi astratto, sia nel disinteresse per le potenzialità drammatiche dei personaggi e delle situazioni che animano la consueta trama settecentesca del libretto, sia nel conseguente ridurre la messa in scena a un susseguirsi di magnifici quadri.
All'opposto delle regie d'opera contemporanee che nel repertorio del '600 e '700 trovano spunti per ardite rielaborazioni drammaturgiche, Pizzi nel 1985 enfatizzò ed esasperò con ironia e con gusto sopraffino lo schematismo dell'opera seria barocca e il suo essere scandita in modo rituale da recitativi, arie e uscite dei personaggi. Propose quindi immagini di bellezza quasi irreale, le quali enfatizzano le sublimi architetture musicali händeliane, con i solisti portati a spasso da abili figuranti che manovrano i carri a vista, evocando la spettacolarità delle antiche macchine barocche.
Tra cavalli, magnifici costumi - con immancabili, lunghi mantelli svolazzanti - e luci che fanno risplendere i personaggi su uno sfondo quasi costantemente scuro, l'allestimento è testimonianza di alto artigianato teatrale e costituisce ancora oggi per lo spettatore un'esperienza di pura arte visuale.
La qualità della parte scenica fa il paio con la pregevole esecuzione di una partitura che, adeguandosi alla regia originale, viene proposta nella versione del 1711 con alcuni inserimenti della versione del 1731 e soprattutto con numerosi tagli che riducono sensibilmente la durata dello spettacolo. Federico Maria Sardelli, alla guida della compagine del Maggio - e in un paio di momenti solista nel suonare il flautino - propone una lettura di Rinaldo algida, precisa e raffinata. Una lettura caratterizzata da una costante trasparenza strumentale (che non va a scapito del bel suono prodotto dall'orchestra) e soprattutto da una cura mirabile negli equilibri sonori tra buca e palcoscenico.
Affascinanti gli accompagnamenti a due tra le arie più note come “Cara sposa” e “Lascia ch'io pianga”, quest'ultima ottimamente eseguita da Francesca Aspromonte, la quale lega e fraseggia con dolcezza su tempi dilatati, suggestivi al pari delle originali variazioni proposte. Più che buona, nel complesso, nel ruolo di Almirena, il soprano sfoggia voce dal timbro personale e gradevole, non chiarissima ma ben differenziata rispetto a quella più scura e sonora di Carmela Remigio, generosa e incisiva Armida, le cui doti di interprete sono sempre state particolarmente valorizzate dai ruoli del '700, händeliani e mozartiani.
Sugli scudi Raffaele Pe nella parte del protagonista, spesso affidata a mezzosoprani e negli ultimi lustri più frequentemente appannaggio di controtenori. Alla giovane e spavalda figura il cantante unisce una tecnica rifinita che gli assicura una proiezione del suono ottimale, elemento essenziale in voci peculiari come quelle dei falsettisti dove l'ampiezza è giocoforza limitata. Dopo un inizio relativamente cauto Pe è autore di un'esecuzione in continuo crescendo dove la sicurezza dei mezzi, con bei colori ambrati in basso , fa il paio con il fraseggio e la varietà di accenti da artista di razza. Un paio di note occasionalmente forzate negli estremi acuti sono più che veniali a fronte di una prova di alto profilo quale quella messa in mostra alla prima dello spettacolo.
Sempre una sicurezza in questo repertorio il tenore Leonardo Cortellazzi, Goffredo vocalmente completo e stilisticamente inappuntabile. Corretto e preciso Andrea Patucelli, che nell'aria di entrata di Argante suona un po' dimesso rispetto alla grandiosità di un personaggio per il quale è sempre difficile scacciare il fantasma di Ramey, ma che nel resto dell'opera canta con gusto e garbo.
Molto brave le interpreti delle due sirene Valentina Ruta e Marilena Corò e cast completato in modo funzionale da William Corrò (Mago Cristiano) e Shuxin Li (Araldo).
Successo trionfale per tutti, con molti e prolungati applausi per le due protagoniste femminili e per il direttore, punte di entusiasmo per Raffaele Pe e ovazioni per il novantenne (e in splendida forma) Pierluigi Pizzi, il quale accoglie con evidente e coinvolgente gioia la festa che il teatro fiorentino gli tributa, sembrando quasi non voler più lasciare il proscenio.
La recensione si riferisce alla prima del 7 settembre 2020.
Armida | Carmela Remigio |
Goffredo | Leonardo Cortellazzi |
Almirena | Francesca Aspromonte |
Rinaldo | Raffaele Pe |
Argante | Andrea Patucelli |
Mago Cristiano | William Corrò |
Due Sirene | Marilena Ruta Valentina Corò |
Araldo | Shuxin Li |
Direttore | Federico Maria Sardelli |
Regia, scene e costumi | Pierluigi Pizzi |
Assistente alla regia e lighting designer | Massimo Gasparon |
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino | |
Ricostruzione dell'allestimento del Teatro Valli di Reggio Emilia del 1985 |
Fabrizio Moschini