Un’ossessione. Solo un’ossessione poteva arrovellare tutta la vita compositiva di Wagner, con la ricorrente contrapposizione tra amore terreno e amore spirituale, che connoterà alcune sue opere, dall’Olandese al Tannhäuser, dal Lohengrin al Parsifal. La difficoltà di Tannhäuser, uomo profondamente romantico, rifiutato dal suo mondo, che non riesce a scegliere tra l’amore voluttuoso e l’elevazione dell’anima é in ultima analisi la difficoltà di Wagner, per niente compreso dai contemporanei. Un percorso unificatore lega le opere mistiche consacrate alla purezza redentrice come Tannhäuser e Parsifal, anche se in quest’ultima il protagonista raggiungerà da solo la presa di coscienza salvatrice e redimerà la femmina peccatrice, mentre per Tannhäuser come per l’Olandese è necessaria l’intercessione della donna, come di una novella Maria. Percorso di vita quindi, che passa attraverso il "fondo" del peccato e termina in "alto" con la misericordiosa salvazione dei protagonisti. Misericordia che invero non viene applicata dal Papa Urbano IV che rifiuta la assoluzione per i peccati di "carne", nonostante il viaggio a Roma del pellegrino, con tutti i tormenti di un’anima pentita ; rifiuto che risulta quanto mai bigotto e suona come polemicamente anticattolico, a vantaggio della grazia tutta "luterana", rivelata dal miracolo della fioritura del pastorale. Ma Elisabeth è veramente una donna da amare ? Non è piuttosto uno strumento di salvazione, come Tannhäuser non è un uomo da amare ma da salvare ? I due sono condannati dal fato a non potersi mai unire in un amore che leghi l’anima e il corpo e questa dicotomia si evidenzierà in maniera inequivocabile nei molti ripensamenti della genesi musicale, che si prolungherà per oltre 30 anni. Dalla prima edizione di Dresda del 1845 alla seconda in francese di Parigi del 1861, fino all’edizione di Monaco del 1867, quella cioè ritradotta in tedesco e riorchestrata nella sua parte finale e ad altre modifiche, da Vienna sin oltre il 1875. Non poca influenza avranno anche i tormenti della composizione del musikdrama Tristan und Isolde, che influiranno non poco sulle modifiche apportate alle precedenti opere romantiche. Solo il Wagner maturo avrebbe potuto dipingere il Venusberg con le dissonanze e i cromatismi delle ultime revisioni, così come l’introduzione orchestrale alla scena quarta del secondo atto e il poderoso concertato finale del secondo atto. Il racconto del viaggio a Roma ha la complessità di una costruzione musicale più simile ai leitmotiv che non ai "numeri chiusi" tipici delle musiche di scena che connotano il resto dell’opera. Il lied inneggiante a Venus di Tannhäuser in quattro strofe,il passaggio dalla atmosfera del Venusberg alla rarefatta aria mattutina di un paesaggio di montagna, il lied del pastorello o i cori dei pellegrini in cammino o le fanfare dei corni all’ingresso del Landgravio conseguono direttamente dal romanticismo weberiano. Il lied di preghiera di Elisabeth al terzo atto è ispirato a Berlioz, a Liszt e al Mendelssohn del "Sogno di una notte di mezza estate". Il lied di Wolfram alla "stella della sera" ha influenze belliniane, così come di ispirazione italiana è anche il cosiddetto "settimino", scena quarta del primo atto, dove arieggia l’adagio finale dal Poliuto. Ma Wagner alla bisogna cita anche se stesso, dall’Olandese o dal Parsifal nel duetto Venus-Tannhäuser del primo atto o dal Lohengrin, quando le trombe accompagnano l’ingresso dei nobili al secondo atto, prima della scena della contesa dei cantori. La musica di Wagner non poteva rendere più evidente l’innegabile contrasto tra il vizio e la castità. Tate si adegua alla prassi esecutiva tedesca degli ultimi tempi, concertando una edizione cosiddetta "mista", Dresda-Parigi, ripristinando, tra l’altro, l’intervento di Walter von der Vogelweide nella contesa dei cantori, espunto da Wagner sin dall’edizione di Parigi per non esagerare nel messaggio moralizzatore contro le innovazioni di Tannhäuser. La concertazione del maestro inglese ha avuto il merito di ricercare sempre la teatralità e l’umanità dei personaggi, rendendo nitida e trasparente la narrazione, esaltando minuziosamente il contrasto tra i due mondi, ma spesso ha ecceduto nei tempi lenti. Sin dall’ouverture l’andante maestoso del "coro dei pellegrini", enunciato dagli ottoni, si è dipanato con una lentezza sacrale quasi ieratica, i violoncelli del secondo tema sono parsi di una malinconia lancinante ma nella ripetizione è mancata la febbrile concitazione dei violini così come mancava di reale eccitazione l’allegro del Venusberg con il conseguente orgiastico baccanale. Il duetto Venus-Tannhäuser si è dilungato per oltre dieci minuti rispetto alla tempistica consueta, dove il direttore è parso più attento alle necessarie pause di respirazione laboriose del protagonista, in palese debito d’ossigeno. Scarsa è stata la propensione alle smorzature seducenti, al languore stordente, alla carezzevole sensualità, tutte trasformate in una carnale morbosità, ad assecondare forse la "muscolarità" dei due cantanti. Il secondo atto é stato per mio conto migliore, già dall’inizio nell’allegro, i violini tutto fremiti di gioia hanno descritto benissimo la trepidazione d’amore di Elisabeth ed anche il seguente contrasto nel duetto Elisabeth-Tannhäuser, tra la dolcezza dei violini e la cupezza dei fiati e degli archi al grave – nella amarissima evocazione dei trascorsi peccaminosi – viene esaltato fino al coronamento di un entusiastico allegro a due voci. Assolutamente centrata la concertazione del " concorso di canto ", per nulla enfatica ed attenta alla ricchezza e alla delicatezza degli arpeggi e alla agogica finissima. Splendido l’interludio che precede la scena quarta con il continuo basculare dal pp degli archi dolcissimi al ff degli ottoni maestosi, così come toccantissima è parsa la melodia di compassione e di supplica di Elisabeth prima del poderoso concertato in lode – tipo corale luterano – che con severità chiude il secondo atto, con i fiati in ff ad enunciare il motivo della "espiazione" in maniera umanissima e in alcun modo prevaricante il canto. Il pellegrinaggio di Tannhäuser – introduzione orchestrale al terzo atto – tornava ad essere letargico; in modo particolare, l’andante dei violoncelli nell’enunciazione del tema del "dolore di Tannhäuser" si trasformava in un adagio tout court, col ché veniva perso, a mio avviso, il contrasto con il precedente adagio dei legni quando rievocano la melodia della "supplica di Elisabeth". Bene viceversa il contrasto tra i violini frenetici del "fremito di vita" e la maestosità degli ottoni della "festa del perdono". Grazie anche ad una resa vocale magnifica, la "supplica di Elisabeth" e il lied di Wolfram nel loro lento dipanarsi, riescono emozionanti per la carica di malinconicissima umanità. Come altrettanto emozionante mi è parso il corale di conclusione, possente affermazione del sentimento religioso, esaudito dal miracolo della redenzione di Tannhäuser e dalla fioritura del pastorale, immerso in una verdissima luce carica di speranza. Vocalmente, la seconda recita, registra delle "vette" e dei "buchi neri", tra i quali annovero il protagonista. Gambill, trasformatosi negli ultimi tempi da un timido ed anemico Pedrillo in un erculeo wagneriano, delude alquanto, anche perché alimenta un equivoco di fondo : che i tenori wagneriani – appunto – debbano essere solo dei "muscolari". Nello specifico, la tessitura pur non acutissima batte perennemente sul passaggio e spesso deve svettare su un densissimo volume orchestrale ma, se si trasforma tutto il canto in un fibroso sforzo declamatorio, dove mai - dicasi mai - il canto modulato, morbido e in "piano" tenta di chiarire la macerata delusione di un uomo rifiutato dai suoi compagni perché "alternativo", dove mai il fraseggio diviene cifra interpretativa, sostituito da un canto al limite dello strangolamento anche solo sui Fa e sui Sol, dove mai – nonostante lo sforzo – riesce a svettare nei concertati, vedasi quello del secondo atto, in cui nessun La naturale è riuscito ad emergere dal poderoso volume corale, che protagonista ne viene fuori ? Il duetto del primo atto con Venus non ha avuto nulla dell’eroicità necessaria, sostituita da una ricerca spasmodica di volume che ha distrutto qualsivoglia tentativo di legato e di chiaroscuro, così come niente è emerso dal "fangoso" racconto del terzo atto, se non un monotono e martellante ricorso al "forte" perenne e alla concitazione che – per altro – lo ha stremato visibilmente, in sostituzione della piena consapevolezza della colpa non perdonata. Quasi un "buco nero" anche la altrettanta "voluminosa" Venus di Petra Lang, la cui potenza da vero soprano drammatico ha prodotto una tale veemenza da virago da somigliare più alla selvaggia Kundry che non alla dea dell’amore. Manca – purtroppo- della necessaria morbidezza di emissione, del languore sensuale, delle calde ed avvolgenti fascinazioni di una carezzevole amante, trasformate tutte – come dicevo – in una carnosa morbosità. Le note ci sono tutte, la tenuta vocale pure ma mi aspettavo una interprete più insinuante, voluttuosa e tentatrice al posto di una corretta e monotona vocalista. Interprete a due facce il Landgravio di Franz-Josef Selig, di bel timbro, dai centri rotondi e potenti, dai gravi risonanti ma dotato di un passaggio piuttosto ingolfato e di acuti sforzati e stimbrati. Ha disegnato più che un Principe un paternalistico moderatore, solo alla fine giustamente indignato contro il reprobo. Discreti il Walther di Stefan Margita, il Biterolf di Ernesto Panariello, l’Enrich di Enrico Cossutta e il Reinmar di Paolo Battaglia. Un po’ flebile il giovane pastore Beniamino Borciani. Ho lasciato per ultimi lo splendido Wolfram di Peter Mattei e la femminile Elisabeth di Adrianne Pieczonka per meglio confrontarli con ciò che si definisce : canto-interpretazione. Allo splendido timbro giovanile del baritono, si lega una tecnica di emissione pregevole che permettendogli di cantare correttamente sul fiato, consente chiaroscuri, alleggerimenti dell’emissione, piani, mezze voci, legato ed acuti da manuale sì da poterlo definire un grandissimo fraseggiatore, commosso e all’occorrenza appassionato. La magnifica morbidezza nel lied alla "stella della sera" ha avuto una pregnante resa, di emozionante malinconia. Una lezione di stile che ci riconcilia con l’arte del canto. Altrettanto brava la cantante canadese, non dotata di timbro purissimo e luminoso, non ha disegnato una eterea vergine di toccante ma un po’ utopica poeticità, ma ha saputo sottolineare la trepidante partecipazione di una donna vera : "in carne ed ossa", anche con la nevroticità e l’ansia, come di chi aspetta che si coroni la tanto sospirata unione d’amore. E la "preghiera" del terzo atto, ha il disfacimento e la macerazione di una delusione terrena che sola può affidarsi alla misericordia divina ma anche la consapevolezza della missione salvifica cui è chiamata. Il coro si copre di gloria in lungo e in largo e – in modo precipuo – nella magnifica sottolineatura della splendida polifonia nel concertato finale del secondo atto. Molto bene l’orchestra, solo un po’ incerta negli ottoni quando accompagnavano il protagonista. Lo spettacolo rappresentato dal regista Paul Curran con le scene e i costumi ( anni ’30 ) di Kevin Knight, le luci di David Martin Jacques e la coreografia di Andrew George ha soluzioni ben congegnate ed altre di imbarazzante bruttezza ed inutilità. Se il primo atto ed il terzo avevano un denominatore comune nel bosco, luogo oscuro in cui si fa evidente da una parte la perdita di identità di sé e nell’altra la solitudine davanti a Dio, quando lo si prega e tutto sembra inutile, il secondo atto ha rievocato un’aula di parlamento dove, posizionata al centro una pedana-palcoscenico rotonda, i cantori si sono succeduti nella contesa. Al secondo atto, ho trovato opportuno che la regia evidenziasse quanto fosse poco accettato dai suoi colleghi il povero Tannhäuser, così privo di spada, di fascia blu nobiliare e addirittura inizialmente – durante l’entrata degli invitati – anche di seggiola. Suggestivo il gioco di luci, dall’inevitabile rosso-peccato al livido color-lunare della stella della sera, dal bianco-purezza al verde-speranza del miracolo finale. Ma la rappresentazione del baccanale somigliava più alla figurazione di un patetico locale di lap-dance, dove gli avventori "fatti" o ubriachi si concedevano qualche divagazione erotica in abiti discinti, per l’oggi : castigatissimi. Il locale suddetto, una sfera rotta rigorosamente in rosso, a mo’ di alcova poco frequentata dalla Venus-Jean Harlow,apparsa come un angelo dotato di enormi ali bianche, e dal povero Tannhäuser vaganti per il bosco tra un liocorno e i fumi rossastri di queste annacquate visioni sensuali. Il tutto sembrava uno spettacolo un po’ kitsch e alla buona in un locale secondario di Las Vegas. Ma anche poco suggestiva risultava l’apparizione - con relativo mini-spogliarello - delle solite procaci sirene in autoreggenti, nel nobile consesso dei cantori timorati della dea, da un incomprensibile praticabile a fianco del solito liocorno, incastonato nel bel mezzo dall’anfiteatro parlamentare. Recitazione e gesti all’occorrenza plateali, forse il regista cercava di illustrare, didascalicamente, ai neofiti, il doloroso percorso di salvazione del protagonista ? Alla fine applausi convinti per tutti, in una serata con luci ed ombre ma che dignitosamente riporta Wagner all’attenzione del pubblico milanese.
Hermann | Franz-josef Selig |
Tannhauser | Robert Gambill |
Wolfram | Peter Mattei |
Walther | Stefan Margita |
Biterolf | Ernesto Panariello |
Heinrich | Enrico Cossutta |
Reinmar | Paolo Battaglia |
Elisabeth | Adrianne Pieczonka |
Venus | Petra Lang |
Pastore | Beniamino Borciani |
Quattro Paggi | Rodolfo Airoldi, Caterina Hilgenberg, Elena Caccamo, Pierfilippo Barbano |
Scene e Costumi | Kevin Knight |
Coreografia | Andrew George |
Luci | David Martin Jacques |
Regia | Paul Curran |
Maestro del Coro | Bruno Casoni |
Direttore D’orchestra | Jeffrey Tate |
Ugo Malasoma