Un celebre uomo di teatro e di cinema incontra un rampante direttore d’orchestra della penultima generazione per dar vita al Don Giovanni di Mozart e Da Ponte. Il risultato è curioso, perché l’uomo di teatro, che dei due è il più anziano e affermato, si trova ad entrare per la prima volta nel mondo dell’opera lirica, tenuto diligentemente per mano dal direttore d’orchestra, più giovane e meno popolare. L’impresa, occorre dirlo, è assai ostica, poiché Don Giovanni è opera di ambiguità irrisolte, di dubbî arrovellanti, di tensioni mai solute: affrontare di colpo la regia di cotanto titolo potendo vantare nel campo la sola esperienza di due innocui atti unici – Il divertimento dei Numi di Paisiello e La romanziera e l’uomo nero di Donizetti nel 2000 a Rovigo – è, come giustamente è già stato fatto notare, cosa di non minor audacia che pretendere di scrivere un romanzo di formazione conoscendo appena l’alfabeto e la grammatica.
Michele Placido – di lui si parla – non manca di buona fede, di impegno e di entusiasmo, ma le cose complessivamente fanno una certa fatica ad andare in un verso degno dell’aggettivo giusto. Lo spettacolo comincia prima ancora che risuonino gli accordi dell’Ouverture: il gran sipario verdemare svela una parete scura, dalle cui finestre opache si scorge Donna Anna essere braccata da un vampiresco Don Giovanni, e solo qui la musica parte. Ma non si avverte in nessun modo il bisogno di mostrare quello che ci verrà poi raccontato dalla stessa Donna Anna, tanto più che quel fatto rimarrà fino alla fine avvolto nel mistero e, si sa, la bella nobildonna può aver docilmente assecondato le intenzioni del visitatore notturno. Se si intendesse questa scena aggiunta come suggerimento di una visione gotica e tenebrosa del personaggio, peraltro valida, si rimarrebbe però contraddetti dal corpus dell’opera, in cui Don Giovanni è un bell’estroverso abbigliato alla moda di Humphrey Bogart.
Andando avanti nello spettacolo, la cosa di cui ci si accorge sempre più è la plumbea oscurità che avvolge tutte le scene, e questo alla lunga irrita l’occhio prima ancora che la mente. Non si tratta semplicemente di un buio simil-notte, che peraltro sarebbe giustificato dallo svolgimento ampiamente notturno dell’azione, ma proprio di una cappa di sconsolante penombra rigidamente spalmata su ogni scena, a prescindere dall’ambientazione interna o esterna che sia. Placido ha affermato che in quest’opera predomina la morte dall’inizio alla fine, ma ha altresì ammesso che è necessario trovare un equilibrio tra questo aspetto e quello giocoso e frizzante: all’atto pratico, però, la fissità delle luci basse e la tenebra degli scurissimi tendaggi che, coprenti verticalmente l’intera scena, ritagliano di tanto in tanto il solo proscenio come neutro spazio d’azione dei cantanti sono soluzioni che fanno virare decisamente la regia verso un sentimento di noia e stanchezza più ancora che di morte, e decisamente non di brio.
Si potrebbe discutere anche riguardo altre scelte. Lo sventolare di parrucche e tricorni in cima a bastoni agitati per aria al suono del celebre motto «Viva la libertà!» è il solito arbitrario e abusato riferimento all’imminente Rivoluzione Francese, e annesse teste mozze. La statua del Commendatore si presenta come un grande angelo a testa china che protende con la mano una croce, quasi a voler tentare un esorcismo verso l’anima dannata di Don Giovanni, e questa è un’idea non male: però andrebbe sfruttata meglio nel finale, in cui potrebbe avvenire davvero qualcosa di grandioso, invece di una dubbia scalata del dissoluto sull’imponente statuone.
Però, grande merito di Placido è l’aver assicurato una recitazione sobria ma eloquente, questa sì abilmente in equilibrio tra i due poli magnetici dell’opera: Don Giovanni non è un bisonte barbarico né un eunuco spilungone, ma un giovane di bell’aspetto e di maniere gentili ancorché determinate; Leporello è – oh gaudio! – ben lungi dal manierismo o dalla buffoneria gratuita che spesso attanagliano il personaggio, e anzi è perfetto alter ego del suo padrone nei movimenti, nella figura e persino nella voce; neppure Masetto e Zerlina clowneggiano, emergendo piuttosto come giovinetti di cui oggi è pieno il mondo; Elvira è l’esatto opposto dell’isterica zitella dipinta da un certo immaginario collettivo, ma è donna malinconica e introversa, d’inestimabile eleganza. Certo ci vogliono i cantanti giusti per dare evidenza a tutto questo, e molto del merito è loro, ma senza una regia attenta alla caratterizzazione dei personaggi dubito che il risultato sarebbe stato di tal dignità.
È insomma difficile giudicare nel complesso la regia del debuttante Placido: di idee nuove o convincenti non ce n’è granché, e la tetraggine dell’ambiente stanca le pupille e il cervello; ma neppur si può dire ci siano grossi sbagli o cadute di gusto, e la scorrevolezza suggerita al gioco scenico dei personaggi brilla per naturalezza, semplicità ed eleganza. Probabilmente c’è stoffa anche di regista lirico, in Michele Placido: è però all’inizio, e un’opera del calibro di questa richiederebbe quanto meno un’esperienza decennale da mettere in gioco.
Pregi e difetti vanno ascritti anche alla direzione d’orchestra firmata da Gianandrea Noseda. Pure in questo caso, ampiamente riuscito è il fattore “artigianale” della cosa, ossia la precisione, l’afflato e la tenuta dell’orchestra nella pressoché totalità del corso dell’opera: si ascolti per esempio come emergono felicemente i fiati nei passaggi che li vedono protagonisti, grazie allo sfoltimento del gruppo degli archi – in particolare, i clarinetti nella seconda aria di Don Ottavio si coprono di gloria -, o come il fraseggio cangiante, ora aguzzo ora più dolce, riesca ad aderire con singolare efficacia alle esigenze di quasi tutte le diverse scene. Però tale lavoro di pazienza e di precisione, reso possibile anche da un’orchestra questa volta particolarmente sensibile, si trova ad essere sacrificato per via di certe scelte interpretative schizofreniche e non sempre coerenti con la materia musicale e teatrale. Noseda imprime alla narrazione i suoi ormai tipici tratti direttoriali: tempi estremamente serrati e nervosi, la quasi totale assenza di rubato, suono agile e asciutto. Ma tale nervosismo non coincide con quello effettivamente presente nella partitura, sovrapponendosi piuttosto ad esso come generica ansia emotiva; sembra anzi esservi quasi imbarazzo nei momenti più scopertamente drammatici, tanto da volerli risolvere in fretta e furia, come se si volesse nascondere il viso rosso d’emozione abbassando lo sguardo a terra. Gli accordi sincopati con cui inizia l’Ouverture, e che ritorneranno alla fine insieme alla statua del Commendatore, sono ritmicamente confusi e carenti del peso specifico necessario al loro rilievo; così, tutta l’introduzione dell’Ouverture scorre via con gran velocità ma senza reale concitazione, quasi si trattasse di una scomoda pratica da sbrigare. Idem la scena finale, che, segnando il ritorno nell’azione dell’elemento più scopertamente demoniaco, coincide con un certo qual calo di tensione; tra gli altri momenti dell’opera, quello che ancora risente di tale imbarazzo è il duetto del prim’atto tra Donna Anna e Don Ottavio, le cui inquiete folate dei violini vengono sommerse da un passo troppo spedito e generico.
D’altro canto, il resto dell’opera può dirsi del tutto soddisfacente: bandito ogni vezzo d’antica maniera, va apprezzato il luminoso equilibrio tra sobrietà e comunicativa, tra compostezza e sorriso, tra rigore e fantasia. Leggere e frizzanti come sono qui risolte, scene come le arie di Leporello, Don Ottavio e Donna Elvira sono momenti di rosea dolcezza difficilmente eguagliabile. Il passo spedito di Noseda riesce in questi casi, nonché nei recitativi e nei concertati, a imprimere davvero il senso della briosa azione disegnata da Mozart, e per limpidità, purezza e luminosità questa direzione può agevolmente meritarsi l’aulica corona d’alloro.
Resta un fatto abbastanza curioso, costituito dal rapporto ossimorico tra le grevi tenebre della scena e il liquido scintillio della luce orchestrale: se si fosse preso atto di questa realtà, e se su di essa si fosse lavorato, forse si sarebbe giunti a soluzioni interpretative nuove e fantasiose più di quanto effettivamente non s’è visto.
Sembra che il teatro mozartiano stia vivendo un momento particolarmente felice per quanto riguarda la disponibilità di cantanti: il cast messo insieme per questa produzione si rivela effettivamente come uno dei migliori ipotizzabili, certamente in grado di far concorrenza anche alle più celebrate compagini discografiche.
Il giovane basso-baritono Erwin Schrott, approdato a fama internazionale appena la scorsa stagione nel Moïse et Pharaon scaligero, è già perfettamente calato nei complessi panni del protagonista. Lontano da certa barbarica tracotanza con cui è stato dipinto troppe volte il dissoluto punito, Schrott si muove nella parte con sottile ironia, da sornione galantuomo avido di piaceri ma anche magister elegantiarum degli altri personaggi. Soffusamente estroverso, loquace e sorridente, affascinante e suadente, mette in luce il lato più apollineo del personaggio, in un certo qual modo sublimando il lato demoniaco e orgiastico di Don Giovanni nella narcisistica raffinatezza in punta di piedi tipica del dandy wildiano. Ed è forse questa la realizzazione più evidente e compiuta del tentativo di Placido di trasferire l’azione di Don Giovanni dal XVI secolo ai primi del Novecento: la trasformazione del protagonista da «cavaliere assai licenzioso» a ricercato esteta decadente. Un’altra interpretazione d’altronde avrebbe più crudamente evidenziato l’unico limite di Schrott, quello di un carisma non troppo dirompente: risolvendo il personaggio in questo modo, viceversa, vengono valorizzate le migliori caratteristiche del cantante, che risiedono in una spontanea e misurata comunicativa, in una voce morbida, ampia e piacevole, in una recitazione ironica e istintivamente simpatica, in un fraseggio duttile e accurato, e ancor più in una dizione di sorprendente idiomaticità.
Persino migliore, se possibile, il Leporello di Nicola Ulivieri, cantante che, anch’esso molto giovane, domina con meritata autorità numerosi personaggi del teatro mozartiano. Colpisce subito, come accennato più sopra, una notevole affinità con Erwin Schrott, tanto nella figura quanto nella vocalità, ma forse Ulivieri possiede un timbro ancor più accattivante e soprattutto brilla per un carattere buffo completamente mondato di ogni eccesso farsesco. Tutti i suoi interventi, e ovviamente l’aria del catalogo in particolare, sono risolti con una tale, incredibile naturalezza che per rendersi conto del risultato straordinario è necessario andare a riascoltare quello che altri interpreti sedicenti comici hanno combinato a Leporello, infarcendolo delle peggiori trivialità clownesche: qui tutto scorre con una limpidità, con una luminosità veramente fuori dal comune, rese possibili da un dominio magistrale della parola e della musica, in nessun modo inferiori a quelle del sommo Bruscantini – e credo che questo sia il miglior complimenti si possa fare. Memorabile.
Di grande rilievo anche Massimo Giordano nei panni vocalmente scomodissimi di Don Ottavio. Le difficoltà non sono del tutto risolte, essendo certe note di passaggio nella regione alta risolte, per così dire, da sottinsù, ma questa è l’unica – peraltro ampiamente sorvolabile – ammenda che gli si possa imputare: difatti la voce lascia stupefatti per la meraviglia del colore flautato e vellutato che la contraddistingue, e la morbidezza con cui affronta anche le zone più impervie della tessitura lo promuove ipso facto al rango degli eccelsi – non molti – interpreti di questo ingrato ruolo.
Note positive vengono anche dagli altri due uomini: Fabio Maria Capitanucci è un Masetto d’umile simpatia e di splendida vocalità, e potrebbe essere anche un Leporello di lusso; Mario Luperi non ha voce molto tonante ma è sufficientemente autoritario e imponente (tanto nella voce quanto nella figura: supera abbondantemente il metro e novanta).
Venendo alle donne, poco si può dire della Zerlina di Laura Cherici: voce aspra e puntuta, assai poco adatta alle languide volute di «Là ci darem la mano» (che, per inciso, coincide con un singolare calo di tensione da parte di Noseda), recitazione non troppo dissimile dalla norma delle Zerline moderatamente graziose e lodevolmente spiritose.
Qualche perplessità va nutrita a mio avviso soprattutto riguardo verso Mariella Devìa, la «veterana» di questo cast e per questo la più aprioristicamente idolatrata da un pubblico particolarmente rumoroso e sgarbato. Si suole dire che la Devìa risolva i suoi personaggi in virtù del semplice belcanto, trascurandone il lato meramente teatrale, ma in questo caso le si è viceversa riconosciuta una buona capacità nell’esprimere i tormenti di Donna Anna anche con un fraseggio accurato e frastagliato, e con un gioco scenico assai appropriato. È proprio sulla vocalità, piuttosto, che si resta di tanto in tanto scettici: la voce, non bellissima per colore naturale, ha accusato una certa usura e una certa stanchezza, dovute in parte al passare degli anni ma soprattutto - suppongo - a una forma fisica non ottimale, perlomeno limitatamente a questa recita. Si rimane sempre affascinati dalla grande padronanza dello strumento, dall'appropriatezza delle scelte tecniche e stilistiche, dalla sicurezza con cui vengono affrontati anche i passaggi più ostici: ma le note più alte non sono memorabili per precisione e purezza, le ampie arcate di certe frasi cominciano a schricchiolare, l'intonazione non è sempre impeccabile. Resta sicuramente una classe superiore, ma si ha la netta impressione che il pubblico l'abbia osannata più per il nome e la carriera che non per questa singola recita, a mio avviso non entusiasmante.
Chi sorprende positivamente, anzi entusiasma, è invece Barbara Frittoli, che conferma come la sua voce e il suo stile siano assai più adatti a Mozart che non a Verdi. Ha del sorprendente il modo in cui la vocalità corrisponda così perfettamente all’interpretazione: un’Elvira introversa, malinconica, chiusa nell’inaccessibilità della sua aristocratica bellezza, epitome della più intrigante femminilità, che s’esprime attraverso un canto dolce e autunnale, timbrato d’uno dei colori vocali più belli di cui tavolozza non possa disporre, il tutto sintetizzato in uno stile d’altissima, ma che dico, eccelsa classe. Il lavoro sui personaggi di Placido raggiunge con Donna Elvira il suo risultato più personale e memorabile, e la Frittoli dona al ruolo la più mirabile personificazione ci si potesse attendere.
Don Giovanni | Erwin Schrott |
Donna Anna | Mariella Devia |
Donna Elvira | Barbara Frittoli |
Don Ottavio | Massimo Giordano |
Leporello | Nicola Ulivieri |
Zerlina | Laura Cherici |
Masetto | Fabio Maria Capitanucci |
Il Commendatore | Mario Luperi |
Maestro Al Cembalo | Carlo Caputo |
Regia | Michele Placido |
Scene e Costumi | Maurizio Balò |
Luci | Luigi Saccomandi |
Maestro D'armi | Renzo Musumeci Greco |
Collaboratore del Regista | Giovanni Giammarino |
Maestro del Coro | Claudio Marino Moretti |
Orchestra e Coro del Teatro Regio |
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Direttore D’orchestra | Gianandrea Noseda |
Marco Fornengo