In scena al Teatro Comunale di Bologna La Sonnambula di Vincenzo Bellini. Opera tra le più famose del compositore catanese, andò in scena nel 1831 presso il teatro Carcano di Milano. Si tratta di un periodo molto fervido per il melodramma italiano, basti pensare che sono gli stessi anni dei successi milanesi di Donizetti. Il teatro Carcano scritturò per La Sonnambula un cast davvero stellare per l’epoca, che prevedeva i nomi di Giuditta Pasta e Giovan Battista Rubini, reduci dalla donizettiana Anna Bolena. La Sonnambula di Bellini è un unicum nel suo genere, si tratta d’opera semiseria, che è però caratterizzata da uno stile idilliaco; la tinta dell’opera è essenzialmente classica. Amina, la protagonista, si esprime sempre in un registro alto ed elegiaco. Il suo ruolo virtuositico, pensato appositamente per Giuditta Pasta, non ha niente di quel mezzo carattere tipico delle “leggerissime” e volubili protagoniste delle opere semiserie del tempo. Bellini dunque, non si piega alle convenzioni di genere ed infonde originalità ad ogni argomento trattato. La singolarità di Sonnambula è frutto anche della felice espressione poetica di Felice Romani, il fidato librettista belliniano, da tutti considerato “principe” e maestro nell’arte librettistica. Il soggetto è tratto da un balletto pantomimo di Scribe e Pierre Aumer, La somnambule, ou L’arrivèe d’un nouveau seigneur. La differenza principale con l’originale di Scribe risiede nel finale. Nella versione parigina Amina si scopre, alfine, figlia illegittima del conte e dunque ogni fraintendimento viene sopito e l’ordine per sempre ristabilito. Mentre nella versione belliniana non c’è traccia di questa rivelazione, resta il dubbio che Amina in fondo, o nell’inconscio come diremmo noi oggi, sia in realtà affascinata dal conte e lusingata dalle sue attenzioni. Un’ambiguità appena accennata che rende quest’opera un caso singolare nel panorama del tempo: una sotterranea passione, tutta romantica, permane nell’atmosfera, sebbene sia freneta dal candore e dalla misura del testo di Romani. Un’opera consacrata al virtuosismo canoro e a quella melodia “lunga, lunga, lunga”, come appunto la definiva Verdi, che raggiunge vette inusitate nell’aria finale «Ah, non credea mirarti». Lo stesso Rossini giudicava quest’aria la più bella melodia della storia. Formalmente risponde alle convenzioni drammaturghiche del tempo, essendo strutturata in numeri chiusi, ma non segue pedissequamente la tradizione. Poche le cabalette riconoscibili e l’articolazione interna dei duetti è molto varia e originale. Lo spettacolo bolognese mette in scena un nuovo allestimento della Santa Fe Opera, con la regia e le scene di Stephan Grögler. Leggendo le note di Regia, nel programma di sala, si può comprendere il lavoro effettuato dal regista nel cercare una lettura diversa, meno superficiale della vicenda Sonnambula. Amina viene vista come un’adolescente turbata dall’imminente matrimonio, consapevole di passare in tal modo all’età adulta. Ella supera l’inquietudine del momento attraverso la rielaborazione nel sogno/incubo. Tutta la vicenda, viene vissuta come un incubo prodotto dall’inconscio di Amina, in questo modo ella elabora le sue paure per poi potersene liberare e affrontare liberamente quel rito di passaggio che è il matrimonio. È dunque amplificata la dimensione onirica e il sogno diventa il mezzo, la terapia per superare le difficoltà della realtà quotidiana. Il regista immagina Amina assorta nelle letture romantiche del tempo; infatti, all’inizio dello spettacolo, è concentrata nella lettura di Sonnambula, tanto da identificarsi e confondersi con l’eroina del romanzo. Nel sogno la realtà del suo rigido e piccolo mondo comincia ad aprirsi a nuovi orizzonti e a nuovi turbamenti. Anche l’impianto scenografico rispecchia questa apertura, l’albergo iniziale si lacera, si spacca per far posto ad elementi naturali: alberi, cielo ed aria; fino a ricomporsi come albergo nella scena finale quando Amina si sveglia dal sonno e riprendono i preparativi per il suo matrimonio. L’idea registica è originale e può rappresentare una moderna chiave di lettura, dal sapore freudiano, ma quanto di quello che leggiamo nella nota di regia e poi percepibile sul palcoscenico? Purtroppo poco e niente si capisce ti tale impostazione, l’idea non è chiaramente identificabile sulla scena. L’impianto scenico che si squarcia per poi ricomporsi solo nel finale, rimane solo un semplice sfondo all’occhio del pubblico, semmai suggerisce una mancanza di mezzi e di fantasia. Amina è sin dall’inizio vestita con una sottana da “notte”, la vediamo attenta nella lettura di un libro e poi subito cadere in un sonno profondo, dunque che pensare? Che tutto quello che vediamo è frutto della sua fantasia o che il libro doveva essere veramente di una noia mortale? Mentre tutti gli altri si preparano al matrimonio, mentre il suo amato Elvino le dichiara amore incondizionato, lei dorme distesa a terra ancora atterrita dal soporifero libro. Ogni tanto si sveglia e canta qualcosa ma poi di colpo si riaddormenta, al che vien da pensare che oltre di sonnambulismo soffra anche di narcolessia. Si tratta dunque di piccole incongruenze che diventano grandi quando si ignora la semplice realtà del libretto. Ad esempio, quando Elvino intima ad Amina «Ti discosta!», è lecito pensare che lei non dovrebbe trovarsi all’altro capo della scena. Oppure nel finale quando il conte invita ad assecondare i desideri che la sonnambula manifesta nel sonno, Elvino dovrebbe restituirle l’anello e la madre abbracciarla, ma ciò non accadde; la madre e il fidanzato rimangono fermi e immobili in scena, contraddicendo palesemente il libretto. Se Amina è tratteggiata come un fantasma narcolettico sin dalla prima scena, Rodolfo è invece un protagonista da vaudeville o telenovela, tanto è l’affettazione nel personaggio. Per tre quarti del tempo il tenore è sempre inginocchiato. Ogni volta che la scena si fa più drammatica il malcapitato tenore deve prostrarsi a terra. Unica nota positiva è il personaggio del Conte, dalla tinta dongiovannesca, molto elegante e signorile nel portamento, merito da ascriversi quasi totalmente alla bravura di Pertusi. Personalmente non sono contro le innovazioni registiche. Ben vengano le finezze d’interpretazione, ma che siano chiare e funzionali sulla scena e che rispettino le pur minime indicazioni drammaturgiche dell’autore. Non basta scrivere la nota di regia per lavarsi le mani, tant’è che il pubblico in sala non ha gradito per niente e ha sonoramente manifestato il proprio disappunto verso il regista. Venendo agli interpreti vocali, un plauso va alla ormai consolidata bravura del soprano Patrizia Ciofi che si è cimentata in ruolo difficilissimo e ne è uscita come vincitrice assoluta. Scenicamente molto convincente, dotata di una bella figura, non ha delineato un Amina debole e vittima delle circostanze. Esemplare il temperamento e la forza drammatica nel quintetto «D’un pensiero e d’un accento», in cui rigetta con sdegno le accuse del fidanzato. A suo agio nella impervia tessitura del ruolo, ha evidenziato agilità precise e acuti svettanti. Il giovane tenore Francesco Meli interprete di Elvino, insicuro sulla scena, in parte è giustificato da una regia che lo ha particolarmente vessato e costretto a vagare incerto sul palcoscenico. Pur trattandosi di un giovane interprete il modo di cantare ricorda un certo gusto “old style” che per certi versi si rifà a tenori quali Valletti o Tagliavini. L’impressione è che indugi troppo, nelle mezze voci facendo risultare retorico e affettato, uno stile che all’orecchio odierno risulta del tutto anacronistico. Altra nota dolente è la disomogeneità del timbro,: se nel registro centrale la voce ha un bel colore e l’emissione è morbida quando sale gli acuti si fanno nasali e metallici. La voce è comunque dotata di un notevole volume. Michele Pertusi è un ottimo Conte Rodolfo, in scena signorile e sempre a suo agio, è dotato di una voce sicura e piacevole. Malinconico nell’aria «Vi ravviso, o luoghi ameni», sa essere anche un conte beffardo, dai modi ammalianti. Ottima l’orchestrazione di Bruno Campanella, leggera e sognante ma anche capace di momenti di tensione. Il direttore ha saputo guidare con mano sicura gli interpreti, dosando sempre con attenzione il volume orchestrale su quello dei cantanti. Il pubblico in sala è stato caloroso soprattutto nei confronti della Ciofi mentre ha contestato il regista Sthephan Grögler.
Il Conte Rodolfo | Michele Pertusi |
Teresa | Claudia Gherardi |
Amina | Patrizia Ciofi |
Elvino | Francesco Meli |
Lisa | Nicoletta Benelli |
Alessio | Paolo Orecchia |
Un Notaro | Martino Fullone |
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Maestro Concertatore e Direttore | Bruno Campanella |
Regia e Scena | Stephan Grögler |
Scena e Costumi | Veronique Seymat |
Luci | Daniele Naldi |
Maestro del Coro | Marcel Seminara |
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Orchestra e Coro del Teatro |
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Comunale di Bologna |
Luana D'Aguì