Ci son voluti tredici anni perché Il Trovatore, che un tempo si era soliti considerare non un’opera ma l’Opera per antonomasia, con le sue storie di malefici, i suoi bagliori, la sua “tinta”notturna per raccontare le vicende dei due figli del vecchio conte di luna e dell’”abbietta zingara”, facesse ritorno sulle scene del Teatro Comunale “N.Piccinni” di Bari per la Stagione lirica 2004/05 promossa dalla Fondazione Lirico Sinfonica “Petruzzelli e Teatri di Bari”. Un tale spazio temporale ha alimentato in noi il sospetto, già sentenziato del resto dalle “cassandre”, circa l'improbabile futuro esecutivo di questa complessa partitura e di tutte quelle opere appartenenti al cosiddetto “repertorio” verdiano più corrente che in passato venivano inserite all’interno delle programmazioni dei teatri con una frequenza ai giorni nostri impensabile non solo per il piacere del pubblico per quel suo rappprto morboso con il “mito” del “Tenore” e i suoi do di petto veri o presunti, ma anche come opera di “cassetta” in grado di salvaguardare i bilanci degli impresari. Paradossalmente, oggi è più “facile” mettere in scena un’opera di Gluck, di Mozart e di Rossini che non una di Verdi, come appunto Il Trovatore. Si tratta di melodramma allo stato puro, il più difficile forse della trilogia, che non lascia un attimo di respiro dalla prima all’ultima scena. La “scelta” interpretativa chiaramente può incidere in maniera determinante sul risultato complessivo di una riproposta ma quando non si hanno gli interpreti adatti forse sarebbe meglio evitare di metterla in scena.
Nel caso dell’edizione barese è parsa subito chiara l’intenzione, sia dal punto di vista musicale che registico, di puntare sull’elemento lirico ed intimista, e non è la prima volta che succede (altri lo hanno già fatto) piuttosto che su quello eroico e guerresco sottraendo a nostro avviso parte della tensione emotiva che alimenta tutta l’opera. Ne è scaturito un Trovatore privo di quei lampi, di quelle pulsioni, di quelle accensioni che sono parte integrante dell’energia del capolavoro verdiano.
Lo spettacolo portava la firma di Federico Tiezzi per la regia, Pierpaolo Bisleri per le scene e Giovanna Buzzi per i costumi. Questi ultimi davvero molto belli. Si trattava di un riadattamento al palcoscenico del Piccinni dell’allestimento sancarliano dello scorso anno. Tutto è mosso all’interno di uno spazio con quinte mobili con l’intento di creare un ambienti e atmosfere, evitando però la sottolineatura del clima tenebroso e incendiario che investe tutta l’opera, perché è il “fuoco” che accomuna tutti i protagonisti: la “perigliosa fiamma” accende la passione di Leonora, “l’amorosa fiamma” arde ogni fibra del Conte, mentre il “rogo”, quindi fiamme, rappresenta l’ossessione di Azucena, quello stesso che costringerà poi Manrico alias Garzia a salvarla dall’”orrendo foco”.
Gli otto quadri si succedono senza lasciare alcun segno impressivo negli spettatori, spesso facendo porre qualche inerrogativo: perché Manrico al suo apparire non è mascherato? Come fa a “discoprirsi”? Che ci fanno i gitani con le falci? La loro specialità non è la “fucinatura”? Come si fa tra l’altro a leggere un messaggio, evidentemente in codice, su una spada?
Dal punto di vista musicale ha provveduto il maestro Massimiliano Stefanelli, non nuovo al pubblico barese, il quale non ha avuto una compagnia di canto in grado di darci un Trovatore se non memorabile almeno accettabile e forse, conscio di ciò, non ha riaperto i “tagli” di tradizione che ormai nemmeno i più sperduti teatri di provincia utilizzano. Unica concessione il “Tu vedrai che amore in terra” nel quarto atto. Tuttavia ci chiediamo: se le cabalette non sono ripetute e variate, dal punto di vista musicale ha senso riproporle?
Il risultato: sia i cantanti sia l’orchestra non hanno trovato, ci sembra, risorse espressive adeguate. L’orchestra della Provincia ha fatto quello che ha potuto con qualche momento solistico rilevante come l’inizo della quarta parte con i clarinetti e i fagotti.
Sulla scena buon gioco ha avuto l’Azucena del mezzosoprano Tiziana Carraro sia per le doti vocali sia per lo spiccato temperamento drammatico. Dal tenore Nicola Martinucci, di recente definito “il più grande tenore eroico del mondo”, non ci si aspettava più di tanto dopo quasi quarant’anni di onorata carriera, per di più in un repertorio logorante. Completamente da dimenticare tutto il quadro dell’atto terzo che lo ha visto “protagonista” a destreggiarsi tra raucedine e stecche. Sulla scena poi si aggirava in maniera distratta quasi che per lui cantare l’opera verdiana o i Pagliacci fosse la medesima cosa.
Il soprano Maria Pia Piscitelli, il cui canto ci sembra sia più adatto alle eroine puccinaine, ha fatto del suo meglio nel ruolo di Leonora raggiungendo momenti di intensa espressività, soprattutto nella scena finale.
Il baritono Nicola Alaimo ha preferito i risvolti nobili e malinconici del Conte a quelli più truculenti e con ragione perchè il suo canto ne risente.
Completavano il cast il basso Cesare Lana nel ruolo di Ferrando, Nicola Sette in quello di Ruiz, Francesca Ruospo (Ines), Giuseppe Cacciapaglia (Un messo) ed Emil Zehelev (Un vecchio zingaro) senza particolari tratti distintivi.
Bene il coro diretto da Elio Orciuolo, ma nel “Misererre” dava l’impressione di cantare dall’oltretomba tanto lontana era la fonte sonora.
Applausi alla fine per tutti, però senza grande intensità: qualcuno più convinto per la Cararro, per la Piscitelli e Alaimo, di puro rispetto e cortesia per il protagonista.
Il Conte di Luna | Nicola Alaimo |
Leonora | Maria Pia Piscitelli |
Azucena | Tiziana Carraro |
Manrico | Nicola Martinucci |
Ferrando | Cesare Lana |
Ruiz | Nicola Sette |
Ines | Francesca Ruospo |
Un Messo | Giuseppe Cacciapaglia |
Un Vecchio Zingaro | Emil Zehelev |
Regia | Federico Tiezzi |
Scene | Pierpaolo Bisleri |
Costumi | Giovanna Buzzi |
Orchestra Della Provincia di Bari |
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Coro Ente Artistico L’opera |
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Direttore | Massimiliano Stefanelli |
Maestro del Coro | Elio Orciuolo |
Allestimento del Teatro San Carlo di Napoli |
Dino Foresio