Il giorno seguente alla “prima” del Trovatore al San Carlo di Napoli, abbiamo avuto il piacere di incontrare Fiorenza Cedolins nel suo appartamento napoletano e di intrattenerci con lei in una piacevolissima conversazione, durata oltre due ore, con “accompagnamento” di pasticceria napoletana assortita e soprattutto di un meraviglioso babà, opera della Sig.ra. Teresa.
Che cosa ci racconta di questa produzione napoletana del Trovatore, in particolare della regia di Federico Tiezzi, che è stata oggetto di qualche contestazione?
Innanzitutto ci tengo a dire che Leonora è un personaggio a cui sono particolarmente affezionata. Oserei dire che è il personaggio per cui ho deciso di diventare una cantante d’opera. Mi ha sempre affascinato per la sconvolgente bellezza del discorso musicale, e quindi mi sono detta: “devo riuscire a fare questa cosa!”.
La regia di Tiezzi concepisce fondamentalmente i personaggi come quattro universi separati, ognuno con la sua nevrosi: Leonora e Manrico non si parlano praticamente mai, fino all’ultima scena. Tiezzi è un regista giovane, che lavora molto con la prosa e ha cercato di portare la sua estetica, che personalmente ho trovato ricca di suggestioni molto evocative, poetiche, il che è raro in chi ha un’estetica “moderna”. È molto poetico il quadro di “Tacea la notte placida”, con questa specie di piccolo universo; molto suggestivo anche l’uso delle luci. Certo può piacere o meno, ma credo sia da apprezzare perché ha cercato di dire qualcosa di nuovo.
C’è una domanda che vorrei farle prima di tutto, dato che, anche se a livello amatoriale, studio canto: come si fa a vincere la paura del palcoscenico?
Direi che ci sono fondamentalmente due metodi, che vanno applicati possibilmente entrambi. Il primo è chiedersi perché si è lì e darsi una risposta sincera, onesta: sono veramente io che voglio farlo, essere lì mi fa veramente felice? Il secondo è quello di essere preparati e sicuri in tutto quello che si fa al 101%, soprattutto in occasione della “prima”, quando la nostra performance si riduce almeno di un 10-15% a causa dello stress, dell’ansia da giudizio, che è sempre una cosa tremenda a tutte le età.
Credo che per fare bene questo lavoro bisogna provare la felicità che deriva dal comunicare con il pubblico, dall’esprimere sé stessi davanti a qualche migliaio di persone che ti ascoltano: allora cantare diventa un’esperienza davvero gratificante. Riuscire a cantare “D’amor sull’ali rosee” in un certo modo è un po’ come per uno sportivo riuscire a saltare due metri e venti! Ovviamente alla base di tutto ciò ci vuole un po’ di sano “esibizionismo” e direi anche una certa “presunzione” nel ritenere di avere qualcosa da comunicare e di saperlo e volerlo fare.
E nel suo caso, qual è stato il momento in cui si è resa conto di “avere qualcosa da dire”, in cui ha preso coscienza delle proprie possibilità?
La presa di coscienza è stata per me un’esperienza piuttosto strana. Premetto che all’epoca non ero appassionata di lirica, anche perché non era un tipo di musica che si ascoltava a casa mia, non faceva parte della nostra cultura. Mio padre, ad esempio, amava la musica, ma fondamentalmente la sua esperienza era quella di strumentista nella gloriosa banda dell’Istituto Cini di Venezia. In certe zone del Friuli, come quella da cui provengo, la musica era fondamentalmente coro polifonico, organo, al limite musica sinfonica. La cultura della musica lirica proprio in quella zona non arrivava.
Quando avevo undici anni, mio padre mi portò per la prima volta a sentire un coro amatoriale dal vivo, che eseguì tra le altre cose un brano in cui una solista cantava una stupenda melodia, una ninna-nanna con un bellissimo tema, che ricordo ancora. Quando sentii la bellissima voce di questa cantante, una vocina dentro di me disse:”ma io so fare meglio!”. E’ una cosa che mi è rimasta nella mente come un flash.
Dopo di allora non è successo più niente per diversi anni: studiavo pianoforte a livello amatoriale, ma ancora non mi ero mai accostata alla lirica. Quando avevo quattordici-quindici anni accompagnavo invece mio padre nelle serate con il coro di cui faceva parte: si trattava di uno di quei cori alpini, con persone semplicissime e meravigliose, che mi consideravano un po’ la mascotte del gruppo. Così ho imparato ad apprezzare la musica corale polifonica e, all’età di sedici anni, sono entrata a far parte di quello stesso coro che avevo sentito per la prima volta a undici anni. Per me è stata una formazione musicale insostituibile; molti di quelli che mi sentivano cantare, poi, mi dicevano che avevo una bella voce e così, a diciannove anni, ho preso la grande decisione: “Studiamo canto!” e sono entrata in Conservatorio.
E l’esperienza con gli insegnanti di canto come è stata?
Sinceramente piuttosto disastrosa. In Conservatorio forse non ero in grado di recepire in quel momento quello che mi insegnavano o forse non lo trovavo interessante, fatto sta che dopo pochi mesi mi sono resa conto che non facevo progressi e ho deciso di interrompere questa esperienza.
Non avevo però i mezzi per mantenermi e soprattutto per studiare canto con insegnanti privati: la mia famiglia non era d’accordo con questa mia scelta e comunque non erano persone così benestanti da potermi mantenere negli studi; ma forse, con il senno di poi, questa non è stata una grande sfortuna.
Sono quindi entrata nel coro di diversi teatri, dove ho cantato per cinque anni (due a Trieste, due a Venezia, e poi alla Rai di Milano): posso dire che il palcoscenico è stato il mio maestro di canto, una palestra insostituibile che mi ha dato anche la possibilità di sentire da vicino grandi cantanti.
Quindi si può dire che quello che ha imparato riguardo alla tecnica vocale è stata una sua conquista personale?
Assolutamente sì. Quando preparo un’opera riprendo tutte le prove in video e in audio: ogni volta riascoltarsi è una sofferenza, perché non sono mai completamente soddisfatta e questo diventa motivo di stress, ma è un lavoro che mi aiuta molto; e poi ascolto sempre i pareri delle persone di cui mi fido. È il lavoro diuturno che faccio da quindici anni. Mi sono formata facendo questo lavoro su me stessa e confrontandomi con quello che facevano gli altri, i grandi cantanti: ogni giorno studio ascoltando i miei suoni, provando la posizione della lingua, della laringe, del palato, mettendo più o meno in maschera, ricercando le risonanze di petto, ecc., ecc.; e poi mi metto a confronto con le registrazioni dei grandi cantanti, cercando di capire, anzi di “carpire” quello che fanno. Non si tratta certo di farne l’imitazione pedissequa, ma di studiare come risolvevano certe difficoltà, certi passaggi. Ad esempio, nella parte di Leonora c’è il piccolo arioso che comincia da “Degg’io volgermi…” fino a “…al mio perduto ben, ricongiungermi un dì.”, nella scena del Convento: si tratta di poche battute, ma che sono, dal punto di vista squisitamente tecnico, la parte più difficile di tutta l’opera. Adesso sono abbastanza contenta di come le ho risolte, però quelle battute mi sono costate anni di studio (in questo passaggio Giuseppe non ha dimostrato di voler molto bene al soprano!…): ho ascoltato molte edizioni del Trovatore e ho cercato di capire in che modo risolvevano questo passaggio le altre colleghe che lo avevano eseguito egregiamente prima di me; ho confrontato l’esecuzione nota per nota, analizzando come mettevano la voce, il fiato e poi ho sperimentato per anni varie possibilità di esecuzione, fino a quella di ieri sera, che più tardi voglio risentire…
Quali sono i consigli che si sente di dare a un giovane che comincia a studiare canto?
Direi che innanzitutto ci vuole una grandissima autocoscienza, quasi esasperata. Se la voce va usata dieci, in proporzione il cervello va usato mille. E questo soprattutto per quanto riguarda lo studio, perché non esistono maestri che sfornano grandi cantanti in serie: l’incontro fra un grande maestro e un grande allievo è sempre una cosa quasi… esoterica! Teniamo conto che stiamo parlando di uno strumento “fisiologico”, uno strumento molto particolare che non è solo la gola, la laringe, ma tutto il nostro corpo. Questa è la prima difficoltà, perché ogni corpo è diverso dagli altri. Pensiamo poi a quanto la psiche influenza l’organo vocale: quando si è nervosi la prima cosa che “salta” è la voce, tutti gli stati di tensione vanno a riflettersi sul plesso solare, sul diaframma e sulla laringe. Per di più la nostra sensazione, come cantanti, è una sensazione “falsa” della voce, perché ci sentiamo “da dentro” e quando si emettono certi suoni si viene letteralmente assordati dal rimbombo che c’è nella testa.
Il maestro di canto dovrebbe quindi essere innanzitutto un otorinolaringoiatra, per spiegare come funziona fisiologicamente ciascun nervo, ciascun muscolo, e già questo è quasi impossibile; poi dovrebbe esser un magnifico cantante, ma se lo è, difficilmente si dedica all’insegnamento; e poi deve essere un didatta eccellente, con un’ampia cultura e, non da ultimo, uno psicoterapeuta, poiché spesso l’allievo canta perfettamente finché è in casa e invece, quando arriva sul palcoscenico, si blocca. E’ quindi praticamente impossibile trovare un maestro completo, “perfetto”: da qui l’importanza che chi studia abbia una chiara consapevolezza di sé, delle proprie qualità e caratteristiche, e che abbia la capacità di capire se quello che gli stanno insegnando fa per lui, se gli sta facendo fare dei progressi o no.
Non c’è stata, quindi, la figura di un maestro particolarmente importante per la sua formazione?
Certamente: io ho avuto una guida artistica preziosissima nel M° Benaglio, con cui ho ripassato gli spartiti per alcuni anni. Un grande professionista, che ha fatto la conoscenza diretta di grandi cantanti e maestri del passato: pensiamo che ha conosciuto Cilea e Mascagni, che ha lavorato con grandi cantanti e con grandi direttori del calibro di Giulini e Karajan. Oltre a darmi preziosi consigli interpretativi, mi ha trasmesso il senso della grandezza dell’arte, il senso di rispetto e amore per la musica, direi il senso di responsabilità che deve avere il cantante. Trovo sbagliato, ad esempio, quando un artista affronta il teatro come una sfida, come una palestra della voce, dove l’importante è mostrare chi ha più muscoli. Questa sensibilità è stata la cosa più importante che mi ha trasmesso il M° Benaglio.
Ci parli della sua esperienza con i direttori.
Io ho lavorato molto con Oren: è un direttore con una sensibilità musicale incredibile, che gli deriva anche dalla sua cultura musicale mediorientale. Adoro come concepisce le opere, è un godimento per il cervello e per l’anima: riesce a dare un fraseggio così avvolgente che la musica diventa una specie di caleidoscopio di colori, quasi una danza. E poi ha un grandissimo, vero amore per le voci, cosa che tante volte non accade per i direttori, che spesso concepiscono la voce solo come uno dei tanti strumenti e non ne sono veramente innamorati. Chiaramente, lavorando con una personalità come quella del M° Oren, c’è molto da imparare, perché ti aiuta a rendere la tua voce lo strumento più bello di tutti, il più espressivo e quindi per me è stato un grandissimo aiuto nella mia esperienza di maturazione come artista.
Poi ho avuto belle esperienze con altri direttori. Metha, ad esempio, è un direttore che dimostra di avere una assoluta chiarezza della musica nella sua mente: dà l’impressione di fare musica con incredibile facilità, come bere un bicchier d’acqua; non a caso proviene anche lui da una cultura musicale molto complessa come quella mediorientale. Riesce a rendere perfettamente la fluidità del discorso musicale, una meraviglia in confronto a certe bacchette che “zoppicano”.
Maazel è anche lui straordinario per questa facilità, questa leggerezza; cantando con lui si ha la sensazione che la musica diventi una specie di tappeto volante che ti porta con sé.
Chailly è un grandissimo musicista, con un grande senso del fraseggio; purtroppo ho avuto con lui solo una piccola esperienza (abbiamo fatto insieme Il Tabarro); ha molta musicalità, che non può essere semplicemente frutto di esercizio intellettualistico, di studio: è una cosa che si deve avere dentro. Personalmente non apprezzo quando c’è uno sbilanciamento per l’aspetto intellettualistico della musica a dispetto del cuore, senza per questo dover essere dei sentimentalisti.
Gatti è un altro direttore con cui ho lavorato molto volentieri: molto disponibile, sa capire le esigenze dei cantanti.
E poi Campanella: ieri stavamo riascoltando Norma ed eravamo estasiati dal suono dell’orchestra, veramente delizioso. Prima di cominciare a lavorare con lui, temevo che, essendo un noto rossiniano, volesse tutto rigorosamente eseguito come è scritto. Personalmente, quando sento un direttore dire: “Come è scritto!”, comincio ad affilare le unghie: secondo me non bisogna dimenticare che la scrittura è una convenzione, ma la musica è qualcosa che va al di là della convenzione; certo, bisogna avere rispetto per la scrittura, ma poi dobbiamo metterci la musica. Ecco, il M° Campanella ha cominciato la prova dicendo: “Non venite adesso a parlarmi di quello che è scritto!”. Io volevo alzarmi dalla sedia e andare a dargli un bacio: poi ho pensato che la cosa poteva essere fraintesa e mi sono controllata! Ma ho fatto tutta la prova con un sorrisone a tutto campo, perché stavo facendo musica come veramente mi piace fare, ossia nel rispetto della scrittura ma in modo estremamente libero: questo è, secondo me, il modo per riuscire a dire qualcosa, per esprimere; l’arte è creatività, soprattutto nel caso della musica, che si ricrea ogni volta che la si esegue.
Ci dica la sua opinione su un fenomeno che affligge il panorama lirico vocale: sempre più spesso si sentono giovani voci che si rovinano prematuramente perché eseguono ruoli eccessivamente drammatici...
E’ un argomento piuttosto delicato, che è il risultato delle leggi di mercato con cui anche l’arte deve fare i conti. Da diversi anni, in seguito a un certo rifiuto del repertorio verista, c’è stato anche un progressivo rifiuto delle voci “grandi”, cosa che di per sé è frutto di un colossale equivoco tra quello che è una voce grande e una voce verista. Il motivo di questa preferenza per voci più leggere, si può sintetizzare nella frase di Del Monaco: “Grandi voci, grandi problemi. Piccole voci, piccoli problemi”. Le voci grandi vengono ritenute “ingombranti” perché richiedono maggiore flessibilità e comprensione da parte del direttore d’orchestra, ma anche del regista. E questo è davvero un peccato, perché è vero che queste voci non possono avere la duttilità della voce piccola, ma questa non può essere considerata una colpa: sarebbe come rimproverare a un trombone di non avere l’agilità di un ottavino! Fatto sta che da concorsi e audizioni, tranne qualche eccezione, non sono più riuscite ad entrare sul mercato voci “importanti” e adesso se ne raccolgono i frutti: il repertorio si è progressivamente spostato su voci più leggere rispetto al passato. Però, per non affaticare e distruggere le voci, questo processo dovrebbe essere quantomeno accompagnato da un alleggerimento del suono orchestrale, cosa che invece non avviene.
Molte carriere poi, secondo me, finiscono prematuramente perché sono cominciate troppo presto: tecnica non sufficientemente consolidata, ma anche nervi e fisico; da giovani si corre il rischio di cantare molto sull’energia, sullo slancio, però poi se ne pagano le conseguenze in termini di logoramento. Teniamo conto che nella carriera del cantante i ritmi tendono ad essere sempre piuttosto sostenuti ed è difficile riuscire a dosare gli impegni.
Anche lei, in passato, è stata ricercata per ruoli decisamente drammatici...
Ma questo succede ancora! Devo dire innanzitutto che, per evitare eccessivo affaticamento, cerco di stare molto attenta ai tempi di riposo e mi calcolo sempre un periodo di tempo molto ampio per la produzione, così se ho bisogno di riposare due giorni posso farlo.
Devo poi riconoscere che la carriera si fa più con i “no” che con i “si”: effettivamente anche a me sono spesso arrivate richieste per ruoli che non potevo accettare, ad esempio Ballo in maschera, ma anche troppe Tosche e Manon; il problema è che spesso non vengono comprese le ragioni di un rifiuto, che viene quindi interpretato come un’offesa, un affronto personale e il rischio è quello di farsi dei nemici nell’ambiente.
A questo proposito un aneddoto illuminante, che racconto con molta simpatia, riguarda il maestro Oren. Lui è la persona che per prima ha creduto in me. Ha avuto questa (per me felice!) intuizione sulle mie qualità e potenzialità: nel ’98 al ritorno in Italia da Tel Aviv, dove avevamo lavorato insieme nel Simone, ha rilasciato un’intervista in cui raccontava entusiasticamente di aver scoperto la nuova Freni. A parte il paragone lusinghiero, faccio notare che non ero più una ragazzina e mi avevano ormai già sentito in tanti. Lui stesso, in quella occasione, mi disse che assolutamente non dovevo uscire da un ristretto numero di ruoli (quali Mimì, Liù, Micaela, Desdemona e, senza esagerare, la Messa da Requiem). Dopo meno di un mese il maestro si fece vivo per propormi Tosca a Roma e Aida a Napoli! Ma si giustificò dicendo: “Ma con me questi ruoli li puoi fare!”. E devo ammettere che, grazie all’amore che, come dicevo, questa persona ha per le voci, non aveva tutti i torti.
Questo esempio fa però capire come non sia facile per un cantante tenere un comportamento sempre perfettamente coerente nella scelta dei ruoli: personalmente cerco di non eseguire troppo spesso ruoli come Tosca e Norma, e di prendermi comunque i necessari riposi.
Anche per I Masnadieri al Comunale di Bologna la vicenda è stata molto complessa: avevo già detto di no per Ernani; poi si era ipotizzato un Don Carlo, per il quale avevo dato la mia disponibilità; poi anche questa idea era tramontata e ho dovuto rifiutare la proposta di un Attila; fino ad arrivare, per fortuna ai Masnadieri, che ho cantato molto volentieri.
Mi piacerebbe molto eseguire anche il repertorio francese, Faust ad esempio, (tra l’altro non avrei particolari difficoltà con la lingua) ma... non mi è mai stato proposto!
A proposito di ruoli: ci può fare qualche anticipazione sui suoi prossimi debutti?
A Marzo debutto in Falstaff a Monaco, con la direzione del M° Metha. Poi, nel novembre 2005, in Luisa Miller al Teatro Real di Madrid. Con buona probabilità ci sarà un Otello a Napoli nel 2006. C’è anche un ipotesi di Forza del destino a Genova nel 2006: prima di accettare sono però in attesa che venga definito il direttore e il resto del cast. Ci tengo poi a segnalare, anche se non si tratta di un debutto, che nella stagione 2005-2006 del Teatro Regio di Torino canterò in un’Aida molto particolare, con la regia di William Friedkin, che è stato sceneggiatore e regista del film “L’esorcista”.
Una piccola curiosità: come siete venuti a conoscenza di Operaclick?
Il mio manager, Filippo Militano, è sempre alla ricerca di siti che parlano d’opera, per ovvi motivi professionali. In questo caso però l’incontro è avvenuto in un modo del tutto particolare: un amico ci ha scritto, segnalandoci di aver letto sul vostro sito la recensione dei Masnadieri al Teatro Comunale di Bologna, e quindi siamo andati a leggerlo con grande curiosità.
Abbiamo così scoperto questo sito, che ci è piaciuto molto, soprattutto per la vivacità che dimostra e per il continuo aggiornamento, che è invece il punto debole di molti siti dedicati all’opera lirica.
Vuole dare qualche notizia in anteprima per Operaclick? Ad esempio, molti dei nostri amici aspettano con ansia di vederla alla Scala...
Su questo “delicato” argomento non posso ancora anticiparvi nulla, anche se c’è qualche contatto in corso...
Ci promette allora che, se ci sarà qualche interessante sviluppo, Operaclick sarà tra i primi a saperlo?
Promesso!
Allora ci contiamo!
Roberto Chiarelli