Ho incontrato una delle coppie più celebri dell'attuale firmamento operistico, nella loro casa situata fra verdi e profumate colline coltivate a vigneto. La luce crepuscolare di una serata di fine estate rende l'atmosfera particolarmente piacevole e rilassante. Sono in leggero anticipo sul previsto ma decido di suonare comunque il campanello ed ecco, pochi secondi dopo, che viene ad accogliermi una bellissima Daniela Dessì raggiunta un istante dopo da Fabio Armiliato. Devo confessare che ho vissuto con loro circa due ore, tanto è durata l'intervista, senza davvero rendermene conto.
Due ore piacevoli passate in compagnia di due importanti artisti, ma soprattutto due persone simpatiche, semplici e spontanee.
Siete universalmente riconosciuti come una delle coppie più affiatate del mondo dell’opera lirica: ritenete che il vostro legame sentimentale abbia accresciuto il livello delle vostre performances artistiche?
Daniela: Fabio è arrivato in un periodo in cui avrei gradito incontrare un tenore con cui poter avere una “liaison” che fosse sia artistica, di palcoscenico e musicale, allo scopo di poter esprimere il meglio delle mie capacità artistiche. A mio avviso, un feeling particolare è importante, per raccontare un certo tipo di repertorio; opere veriste come ad esempio “Manon Lescaut” e “Francesca da Rimini” hanno bisogno di un partner col quale ci sia, una certa confidenza in tutti i sensi e a tutti i livelli.
Non stavo cercando certo un fidanzato!
Mi è capitato di incontrare Fabio durante un’Aida a Verona - anche se lo conoscevo già perché avevamo fatto insieme un “Andrea Chènier” qualche anno prima - in occasione della quale tutti vennero a riferirci che la nostra, era in palcoscenico, una fusione stupenda. Questi complimenti mi fecero pensare che potesse essere la persona che cercavo, essendo egli, anche un ottimo musicista e un artista che in palcoscenico ha indubbiamente una sua “presenza”.
Comunque in linea di massima è arrivato prima il sodalizio artistico rispetto a quello sentimentale, infatti eravamo già stati inseriti come coppia protagonista, in varie programmazioni teatrali: al Metropolitan, in Europa e in Italia; in un certo senso, sono stati proprio i teatri a decidere la nostra unione artistica. Poi è venuto anche il resto, diciamo, a completare la nostra unione.
Fabio: in effetti, devo riconoscere che da quando ho trovato in Daniela una compagna di lavoro e di vita, la mia tecnica vocale e il mio modo di cantare si sono indubbiamente evoluti.
Premesso che per me Daniela è la più grande cantante del mondo, un vero “trattato di canto vivente” - questa dichiarazione non è certo uno scoop dato che la ripeto spesso -, ho capito che quando cantavo con lei, c’era “qualcosa” che mi faceva cantare meglio, forse la sensibilità comune che mi portava a smorzare un suono e avere voglia di riprenderlo in simbiosi con lei, cercando di entrare nello stesso mondo; questa è stata per me la cosa più importante e devo dire che i progressi che ho fatto in questo senso sono stati notevoli ed anche riconosciuti un po’ da tutti.
Inoltre incontrare Daniela mi ha dato un ulteriore impulso verso un mondo che tende un po’ ad inaridirsi. Corelli diceva che “il mondo dell’opera ha bisogno di grande passione e di grandi complimenti” lasciando intendere che nel periodo d’oro della lirica, intorno a questo ambiente aleggiava una magia, che lui stesso stentava a ritrovare negli ultimi anni di carriera.
Con Daniela ho ritrovato proprio quella magia che stavo perdendo, probabilmente a causa di un certo tipo di routine che si tende ad instaurare ed in conseguenza della quale erano venute meno certe motivazioni.
Insieme abbiamo iniziato un particolare percorso in un repertorio dove è difficile trovare la partner giusta in grado di farti provare quelle emozioni che poi si cerca di trasmettere al pubblico. Il grande salto di qualità è avvenuto proprio nell’entusiasmo che ho ritrovato e credo abbia notato anche il pubblico.
Daniela: certo che cantare con il proprio compagno si soffre il doppio! Si soffre per se stessi e per le difficoltà che deve superare il partner. A volte però c’è anche un piccolo vantaggio: ci si emoziona talmente tanto per il proprio compagno che automaticamente si accumula meno ansia per il proprio ruolo.
Fabio e Daniela: in buona sostanza i teatri avevano capito che tra noi c’era un feeling particolare, forse ancor prima che lo intuissimo noi. Tanto è vero che ci ritrovammo scritturati nelle stesse opere per un arco di tempo anche di due o tre anni. In seguito, quando ci siamo resi conto che oltre al piacere di “lavorare” insieme c’era anche il piacere di “stare” insieme, ci siamo limitati a dare una mano al destino.
Provenite da famiglie con una tradizione o cultura musicale?
Daniela: io, in linea di massima, si. Mia madre e una mia zia (sorella di mamma) avevano studiato canto. Mia zia non fece carriera, pur avendo una voce molto bella, solamente perchè aveva paura del pubblico. Inoltre, bene o male, tutti in casa mia erano amanti della lirica: mio nonno era un fan di Beniamino Gigli ed io a due anni cantavo “non più andrai farfallone….”
Ben presto diventai la disperazione di mia mamma. A nove anni cominciai con il voler cantare e a quindici mi iscrissi al conservatorio; in quel lasso di tempo tutti i pomeriggi mi chiudevo in camera ad ascoltare le mie opere preferite. Ricordo che rimanevo chiusa in camera mia, anche per 6 ore, magari ascoltando e riascoltando la stessa romanza.
Fabio: La mia famiglia invece non ha un background musicale: mio papà aveva studiato un po’ canto ma solo per diletto. Tuttavia, la grande passione per la lirica era presente anche da noi ed io sono cresciuto con quel senso del “piacere” di ascoltare la musica senza che nessuno mai mi abbia forzato. Ricordo che andavo volentieri in vacanza da un mio zio perché aveva un vecchio giradischi scassato e io sapevo che me lo lasciava gestire come volevo, anche per ascoltare e riascoltare innumerevoli volte la stessa opera o la stessa romanza.
Parlateci un po’ dei vostri rapporti con i grandi del passato anche recente; avete usufruito di qualche consiglio importante per il vostro completamento tecnico, vocale, scenico o più semplicemente per la maturazione di uno specifico ruolo?
Daniela: dai grandi del passato si possono imparare tantissime cose. Personalmente cerco sempre di carpire qualche cosa dagli ascolti, non solo dei grandi soprani ma anche da quelli meno grandi. Purtroppo non ho avuto modo di conoscere approfonditamente i personaggi storici: ho conosciuto superficialmente Maria Callas quando ero ragazzina ed ho conosciuto e avuto la fortuna di scambiare qualche opinione con Renata Tebaldi (peraltro una persona dolcissima).
Ho avuto l’occasione di cantare una Butterfly con la regia di Renata Scotto, la quale, per questa ragione è stata sicuramente la grande artista con la quale ho avuto un rapporto un po’ più intenso. Per me è stato molto bello conoscerla e poter collaborare con lei. Tra l’altro mi ha fatto molto piacere sentirmi dire che secondo lei avevamo lo stesso modo di sentire questo personaggio. Ricordo che disse: “non hai bisogno che ti dica nulla perché tu senti Butterfly come la sentivo io”.
Alle volte mi è capitato, quando ero agli inizi della carriera, che soprani importanti mi dicessero: “se io fossi in te farei così”. La mia prima reazione non era positiva, tendevo ad irrigidirmi un po’, poi in seguito pensandoci trovavo che quei piccoli consigli fossero comunque importanti.
Fabio: io sono un cultore della “tenorilità”. Ho sempre avuto la passione per la voce di tenore e anche quando, crescendo, qualcuno mi diceva: ”magari tu hai una voce da baritono”, io non ho mai abbandonato “la voglia” di diventare tenore. Ho cominciato ad ascoltare agganciandomi al passato e questo metodo ritengo sia stata la mia ancora di salvataggio. Senza dubbio devo la mia carriera iniziale, soprattutto a quello che avevo ascoltato ed imparato dai dischi anche se, specifico, bisogna “saper ascoltare”. Io ho sempre cercato di non imitare. Gigli, come ho già detto prima, è stato il mio primo esempio grazie alla passione che mio papà nutriva verso questo grande cantante. In seguito ho avuto un importante rapporto diretto con Franco Corelli che è stato il mio maestro per un certo periodo di tempo.
L’ho sentito solo un paio di volte in teatro dal vivo, tuttavia mi ha sempre affascinato la sua vocalità straordinaria: ritengo che per un periodo di cinque o sei anni - negli anni dal ’61 al ‘65/’66 - lui sia stato il più grande in assoluto. In determinate opere era in grado di fare tutto con una sicurezza straordinaria, che forse poteva essere minata soltanto dalla sua enorme sensibilità. Mi sono trovato bene con lui perché mi sembrava di averlo sempre conosciuto. Tra l’altro con lui avevo anche una certa “combinazione fisica”. Gino Bechi diceva spesso: “noi siamo un po’ come degli strumenti e quindi dobbiamo seguire sempre quelli che anche fisicamente ci assomigliano un po’”.
Quindi io non potevo sicuramente prendere a modello la vocalità di Gigli che era un po’ piccolino, grassottello con una voce completamente diversa dalla mia. Ho cominciato a studiare con Corelli quando già cantavo al Metropolitan di New York e fra i grandi artisti che ho conosciuto è stato sicuramente quello che mi ha dato maggiori stimoli e consigli importanti.
Quale repertorio ritenete che meglio si adatti alla vostra vocalità?
Daniela: ovviamente quello che facciamo. Il repertorio è sempre una cosa difficile da identificare. Io credo che la voce vada di pari passo con l’esperienza e il repertorio con la voce, quindi non si può fare tutto subito. Soprattutto agli inizi di carriera, non bisognerebbe cantare quello che i teatri “propongono”.
E’ necessario fare le cose per gradi: personalmente ho cominciato con tutto il repertorio settecentesco, poi Mozart, Rossini, e lentamente ho cominciato a “salire” verso Verdi e adesso mi sto divertendo un po’ a cantare il “verismo”.
Fabio: ogni cantante ha un margine entro il quale deve cercare di rimanere, se si canta ai limiti è meglio cambiare repertorio. Bisogna cantare quelle opere che ti consentono di cantare senza oltrepassare i propri limiti, riuscendo ad essere sempre convincenti.
Salvo rare eccezioni, sono soprattutto opere del così detto ”repertorio di tradizione” a comparire con maggiore frequenza nella lista degli impegni da voi recentemente affrontati. E’ mia impressione ma credo condivisa da molti, che vi siate specializzati su una serie di titoli, peraltro molto impegnativi, aventi ruoli che ben si adattano alle vostre caratteristiche sia vocali, artistiche che di coppia affiatata; non pensate che questo possa limitarvi a livello di individuale percorso artistico?
Daniela: no perché stiamo sviluppando un progetto preciso. Innanzitutto credo che sia merito nostro il fatto che sia stata “riesumata” la Francesca da Rimini, titolo che non veniva rappresentato da parecchi anni; inoltre abbiamo in previsione titoli che non possiamo ancora rivelare.
Portando avanti il progetto Zandonai abbiamo in programma di fare anche “Giulietta e Romeo”. Personalmente ho intenzione di fare anche altre opere tipo “Norma” che avrei dovuto debuttare l’anno prossimo ma che per ora ho dovuto far slittare. L’anno prossimo debutterò “Fanciulla del West”.
Fabio: Alcuni ruoli occorre prepararli con qualche anno di anticipo. Se noi adesso siamo considerati una coppia che porta avanti un certo tipo di repertorio, è perché abbiamo lavorato molto per parecchi anni in una determinata direzione. Adesso se cantiamo un’opera desueta, possiamo anche trovarci di fronte al fatto - quasi un paradosso - che l’opera in sé interessa relativamente poco, mentre interessa molto che siamo noi a cantarla. Questo per dire che è fondamentale creare i giusti presupposti, altrimenti sarebbe come voler proporre un repertorio particolare senza avere un pubblico. Di conseguenza è meglio prima creare un pubblico.
Quali opere per così dire “non di tradizione” o comunque poco rappresentate avreste desiderio di affrontare?
Daniela: a breve Norma.
Per riuscire a trasmettere al pubblico grandi emozioni, quali caratteristiche artistiche é necessario avere?
Daniela: credo che per trasmettere agli altri delle emozioni sia necessario sentirle in prima persona e soprattutto amare molto quel che si fa. Io per esempio do molta importanza, oltre ovviamente alla stesura musicale, anche alla parola che secondo me è fondamentale per trasmettere sensazioni ed emozioni. Quando si canta si pensa al suono ed alla sua bellezza, che per carità è molto importante, ma molto spesso diventa una bellezza asettica. E’ invece fondamentale legare il suono alla parola, quindi al suo significato, in quanto ritengo sia proprio il testo unito alla vocalità a creare l’emozione.
La passione secondo me la si legge e la si sente, quello che io posso trasmettere è la passione che ho per quello che faccio e con cui cerco di entrare nel tal personaggio. La bellezza vocale se c’è meglio, del resto si lavora per tanti anni sulla tecnica anche per rendere il suono bello, ma ripeto non bisogna dimenticare di unire anche il resto altrimenti si risulta freddi.
Fabio: condivido totalmente quello che ha detto Daniela. Io ho sempre lavorato molto sull’aspetto tecnico perché mi sono reso conto che per arrivare al pubblico prerequisito essenziale è essere sicuri in quello che si fa; che poi il lato tecnico si possa perfezionare col tempo, è un dato di fatto per chi ha questa passione e la voglia di cercare di migliorarsi. E’ certo che senza la tecnica non è possibile nemmeno trasmettere delle emozioni dato che queste si limiterebbero a rimanere delle belle intenzioni. Poi bisogna unire la passione e la sincerità… sul palcoscenico se si è sinceri, se ci si da con generosità il pubblico apprezza sicuramente. Io cerco di darmi totalmente in palcoscenico, anche nei momenti di difficoltà ed ho notato che il pubblico apprezza sempre.
Da cosa è scaturita l’idea di dedicare un CD alle romanze dimenticate di Enrico Toselli?
Fabio: premetto che il ritrovamento venne effettuato da un laureando deciso a preparare la propria tesi di laurea su Toselli, il quale, in cerca di inedite testimonianze, giunse a contattare una signora, ultima testamentaria vivente di Toselli. Questa anziana signora possedeva effettivamente una cassa contenente gli scritti di Toselli e dopo lunga frequentazione acconsentì, alla scadenza dei cinquant’anni dalla morte del musicista, a Leonardo Previero - questo il nome dell’allora laureando - di visionare ed utilizzare il contenuto della stessa.
Personalmente il discorso iniziò parecchi anni fa, credo intorno al 1997. Alcuni amici mi presentarono Leonardo Previero, autore del ritrovamento di questo vecchio baule ed in seguito all’amicizia che nacque fra noi, iniziammo a maturare l’idea di un CD. Tuttavia qualcosa mi diceva che occorresse una voce femminile per riuscire a rendere alcune di queste canzoni al meglio. Del resto, Toselli non è Tosti, per cui è innegabile che siano canzoni da rendere bene per far si che possano essere apprezzate al meglio. Parlai con Daniela di questo progetto, ne abbiamo discusso, abbiamo ascoltato, alla fine abbiamo realizzato questa registrazione e devo dire che è stata una bella scoperta anche per noi. Qualche mese fa abbiamo fatto un concerto a Recanati, in occasione di un’importante commemorazione gigliana, e devo dire che il pubblico si è molto divertito. Lo stesso è successo in occasione del concerto di presentazione del cd a Torino.
Daniela: questo è un genere che tradizionalmente viene cantato da tenori o al limite da baritoni; forse anche per questa inusualità devo ammettere di essermi particolarmente divertita a cantare queste canzoni. Trovo sia un disco piacevole che si ascolta volentieri anche in auto, come sottofondo e non necessita di un particolare impegno nell’ascolto.
Che idea vi siete fatti delle regie, che spesso anche a costo di impossibili forzature sostengono di riuscire a proporre “messaggi particolari” prendendo spunto da libretti tradizionalissimi. Colpi di genio dei cosiddetti registi d’avanguardia o desiderio di protagonismo a tutti i costi da parte degli stessi?
Daniela: per carità, nessuno è legato alla tradizione “a tutti i costi”! Per esempio, io ho fatto un bellissimo spettacolo della Cavani: “La cena delle beffe”, completamente rivoluzionato dalla regista. Aveva spostato l’azione negli anni ’50 o ’60, non aveva una collocazione temporale precisa tuttavia era uno spettacolo bellissimo perché comunque risultava di classe.
Io credo che la seconda parte della domanda sia la ragione più probabile: mettere i gabinetti in palcoscenico è un po’ voler far parlare di sé a tutti i costi. Per una volta un’esperienza del genere può essere divertente ma non la ritengo assolutamente formativa.
Più vado avanti nella carriera e più mi rendo conto che il pubblico ha voglia di ascoltare e ciò che si rappresenta deve essere bello e soprattutto non deve mettere la gente nelle condizioni di pensare troppo. Pensare si, certo, perché una regia non deve essere banale, deve colpire per la bellezza, aiutare la trama, la vocalità, ma non essere una cosa su cui si debba passare tutta la serata per capire cosa si sta guardando. Spesso alcuni registi non rispettano le esigenze né della musica né degli artisti e questo secondo me è la cosa peggiore. Mi è capitato di dover discutere perché magari pretendevano che andassi a cantare in fondo al palcoscenico cose difficilissime. Mi sono capitate cose anche peggiori legate alla regia. Ho cancellato produzioni perché non mi piaceva l’idea o la collocazione registica. Molto spesso secondo me sono veri atti di protagonismo piuttosto che genialità.
Fabio: sono cose che sono fatte per provocare. Certe cose sono fuori dal tempo e questo è un messaggio di critica verso un’arte che non esiste che è fine a se stessa che è autocelebrativa e autocontemplativa e che è destinata comunque ad avere una parabola molto breve in quanto alla gente non interessa. L’arte deve evolversi ma deve avere sempre dei contenuti, se i contenuti sono soltanto superficiali e utili unicamente a provocare la reazione del pubblico allora non hanno senso. Provocare è davvero troppo facile!
Daniela: noi abbiamo fatto adesso un bellissimo Simon Boccanegra con Hugo De Ana; una cosa molto classica, ma comunque di forte impatto scenico. Io credo che il nostro sia un genere teatrale che andrebbe rispettato un po’ di più; forse qualche esperimento maggiore si poteva fare con il teatro di avanguardia, con la prosa, ma insomma, dove c’è la musica credo ci vorrebbe un po’ più di rispetto. Inoltre il pubblico della lirica credo che ami un po’ anche la tradizione e comunque vuole capire ciò che va a vedere, cosa già di per sé difficile se si ascoltano cantanti che non pronunciano bene e che non hanno una buona dizione.
Come classifichereste la vostra tipologia vocale? Lirico, lirico spinto o…
Daniela: Mah, non lo so! Io piego la mia voce a seconda di quello che devo cantare. Sono sempre stata un lirico pieno che ora fa il repertorio da lirico spinto, ecco, lirico spinto se vogliamo. Dipende da che significato vogliamo dare a queste classificazioni. Cerco di essere in grado di cantare bene quello che canto con una vocalità che “arrivi”. L’importante credo sia rendere bene la parte, riuscendo sempre a passare l’orchestra. Non farei particolari classificazioni.
Fabio: io sgombro subito il campo dal termine tenore drammatico in quanto secondo me tenori drammatici si diventa solo con il tempo. Poi drammatico cosa significa? In un certo tipo di repertorio occorre avere gli armonici che ti consentono di passare l’orchestra. A mio parere la mia voce è da lirico pieno e la voce da lirico pieno è quella che ti consente di spaziare da un repertorio lirico un po’ più leggero sino al repertorio da lirico spinto che tutto sommato è quello che sto facendo. Mi sono sempre definito un lirico puro che poi è maturato con il tempo.
In quali ruoli sentite di esprimervi meglio?
Daniela: a me piace molto Tosca perché lo ritengo un ruolo a tutto tondo, sia a livello scenico che a livello vocale, forse per il soprano potremmo definirlo addirittura “IL Ruolo”.
Devo dire che da quando ho debuttato Manon Lescaut mi piace moltissimo anche questo personaggio perché racchiude momenti un pochino più leggeri, momenti più infantili della donna che magari in Tosca non si trovano. Mi piace molto fare Aida perché è l’opera grazie alla quale ho iniziato a cantare consumando a furia di ascolti il disco dell’edizione Caniglia, Gigli.
Fabio: io ho due ruoli che amo particolarmente: uno è Andrea Chènier e l’altro è il Des Grieux pucciniano. Sono i due ruoli verso i quali sin da ragazzo ho sempre avuto una particolare passione anche grazie alle incisioni che ascoltavo con Gigli protagonista. Un altro ruolo che ho cantato moltissimo è stato Don José della Carmen nel quale trovo alcune similitudini con Des Grieux: entrambi cominciano con una vocalità più lirica per poi andare decisamente verso il drammatico.
Siete in partenza per una tournee in Giappone. Dalla vostra esperienza ritenete vi siano delle differenze sostanziali (se ve ne sono) tra il pubblico nostrano e quello estero?
Daniela: beh, i giapponesi sono pieni di entusiasmo e sembrano più portati ad essere “calorosi”, anche se poi, anche loro, quando vogliono tagliar le gambe lo fanno come tutti. Però c’è da dire che sono molto amanti dell’opera italiana e dei cantanti italiani verso i quali nutrono molto entusiasmo. Personalmente devo dire che non ho nulla da dire contro il pubblico italiano il quale secondo me è un po’ più inserito, più preparato all’ascolto. Il pubblico italiano ha molta esperienza diretta.
Forse anche il pubblico americano è più entusiasta e da l’impressione di venire a teatro, più per applaudirti che per criticarti. Gli americani sono sereni e vogliono divertirsi mentre il nostro pubblico a volte da quasi la sensazione che nutra “la speranza” verso l’occasione per poter contestare. Certo che se il pubblico italiano applaude c’è maggior soddisfazione.
Un pubblico simile all’italiano è quello spagnolo, può essere entusiasta da morire ma è necessario riscaldarlo. Una cosa strana che ho notato in tanti anni è che in Italia il pubblico più caldo è al nord ed il pubblico più freddo è al sud.
Fabio: forse è la figura del loggionista che non esiste all’estero. Io per mia esperienza posso aggiungere che, avendo cantato molto in Sud-America, ho riscontrato al Colon di Buenos Aires un pubblico molto competente, entusiasta se è il caso, ma per certi versi molto “italiano” nell’atteggiamento e nelle reazioni.
Dopo il Giappone cosa vi aspetta?
Daniela: andremo negli Stati Uniti al Met per un vecchio contratto di Cavalleria – Pagliacci dove io farò Cavalleria e Fabio, Pagliacci. Stavolta canteremo con partners diversi, ma comunque nella stessa serata.
Come valutate il percorso artistico sin qui effettuato? Potendo tornare indietro cosa cambiereste?
Daniela: non credo di potermi lamentare, sono molto felice degli obiettivi sin qui raggiunti, anche se, da ipercritica qual sono, cambierei molte cose di quelle che ho fatto. Vorrei averle fatte meglio o con maggior cognizione di causa ma del resto ho cominciato a cantare molto presto e quando si comincia a cantare a vent’anni è inevitabile incorrere in qualche problemino. C’è sempre da imparare, il nostro è un mestiere senza limiti e finchè si canta bisogna sempre cercare di migliorarsi. Questo è quello che mi dice il mio carattere. Faccio un esempio per rendere l’idea: io sono talmente ipercritica che non mi piaccio mai e non mi posso riguardare o riascoltare in registrazione. A volte vedo Fabio che guarda un nostro video e gli dico “ma come fai a guardare…”; a volte capita che mi riascolti anch’io per trovare i punti su cui migliorare ma devo essere da sola, non mi piace che ci siano altri a condividere l’ascolto. Quindi alcune cose le cambierei sicuramente, altre invece sono contenta di come le ho fatte… ma andiamo avanti passo per passo cercando sempre di far meglio.
Fabio: Il lamentarsi sarebbe assurdo perché, è chiaro, dopo tanti anni di carriera si arriva ad un punto dove si può un po’ godere dei propri risultati. Io però posso dire una cosa: ho vissuto molto tempo all’estero - praticamente tutto il decennio degli anni ’90 – in quanto avendo un general manager americano, lui cercava di riempirmi di impegni in America. Per questa ragione venivo a singhiozzo in Italia e questo mi ha fatto un po’ perdere il contatto con il pubblico italiano che ho poi ritrovato costantemente a partire dal 2000. Sono stato praticamente dieci anni in esilio e questo aveva fatto si che quando, raramente, cantavo in Italia ero quello che tornava ogni tanto e quindi tutti li a dire: “vediamo quello che fa!”
In America invece ero sempre lo straniero che in parte rompeva certi equilibri interni; queste sono difficoltà che in una carriera purtroppo si devono affrontare.
Io ho sempre avuto voglia di cantare in Italia però gli impegni all’estero non mi lasciavano il tempo necessario, finché un giorno ho deciso proprio di rompere cancellando parecchie cose che avevo già programmato. Non potevo tornare a cantare da noi solamente nei ritagli di tempo, anche perché in Italia il pubblico ma anche la critica hanno bisogno di ascolti ripetuti per abituarsi ad una voce. Del resto è anche giusto in quanto non si può definire un cantante da un solo ascolto. Va anche detto che la perfezione non esiste e che a volte proprio certe imperfezioni diventano caratteristiche apprezzate e peculiari di un cantante. E’ evidente che per far ciò è necessario quel giusto contatto col pubblico che si può avere solo attraverso la presenza costante.
Come vedete questo momento della vostra carriera e cosa deve attendersi il pubblico dal vostro futuro artistico?
Fabio: come la vediamo l’ho detto prima. La tranquillità data dal nostro sodalizio artistico e affettivo, per me è stato un grande incentivo che si può tradurre in più entusiasmo e voglia di osare maggiormente anche in fatto di scelte di repertorio.
Quando ho avuto la possibilità di ascoltare qualcuno in grado di darmi un valido esempio, per me si è sempre trattato di un fatto importante. Oggi ritengo sia molto importante avere un esempio da chi cerca di fare bene questo lavoro e da chi cerca di essere credibile, anche dal punto di vista fisico, affinché l’opera non sia vista dai giovani come una cosa che fa parte di un mondo che non gli appartiene. Io credo di essere abbastanza giovanile e con voglia di fare. Se riuscissi ad inviare un messaggio positivo ai giovani convincendoli a venire a teatro non solo perché cantiamo bene, ma anche perché siamo credibili, ecco, sarei contento. La gente oggi è viziata dalla televisione, dai film e se andassero un po’ di più a teatro vedrebbero che ci sono persone in cui si possono anche riconoscere. Tra l’altro la gente non deve pensare solo a guardare lo spettacolo ma deve pensare che può anche provare a farlo. Io sono nato con questa voglia di fare il cantante
Daniela: a me quello che interessa è dare al pubblico la speranza, vorrei dire la certezza ma non vorrei sembrare presuntuosa, che quando vengono a teatro potranno provare delle emozioni. Questo per me è sempre la cosa più importante! Vorrei riuscire a far si che il pubblico non torni a casa con la sensazione di aver ascoltato una serie di note ben fatte ma dicendo: “io con la Dessì ho passato una bella serata perché ho avuto delle emozioni”. Questo è quello che io mi riprometto sempre di fare!
Io dico sempre: “è vero che canto anche per me, ma canto soprattutto per la gente che c’è in sala”.
La gioia di vedere il pubblico soddisfatto che applaude è grande. E’ vero che essere applauditi è un piacere per se stessi, questo è umano, ma per me è un piacere vedere la gente felice. Questo è il mio pensiero… e quando non potrò più fare questo dico spesso: “chiudetemi in un armadio e via…”.
Nei giorni scorso sul forum di OperaClick molti appassionati hanno discusso sull’eterna questione che ogni tanto riaffiora: “Callas l’unica e inarrivabile o una fra le grandi?” Farà senz’altro piacere conoscere il vostro parere
Daniela: io sono stata un’ammiratrice della Callas. Per lei ho sempre avuto una grande passione. E’ stata una grande artista, giunta in un momento in cui forse c’era proprio il bisogno di vedere e ascoltare. Un po’ quello che dicevo prima, vedere unita la parola alla vocalità e soprattutto rendere più moderna quella che era la recitazione dei cantanti lirici dell’epoca, che spesso erano belle e straordinarie voci, ma magari scenicamente un po’ meno interessanti; in questo la Callas è stata sicuramente rivoluzionaria.
Era una grande musicista, una donna che secondo me ha studiato tantissimo per essere quello che è stata, anche se non ebbe più di dieci anni di grandi fervori. Purtroppo della Callas si ascoltano anche momenti meno grati.
Io ho sempre avuto la massima ammirazione verso questa artista ma che sia stata l’unica io questo non lo posso dire: abbiamo avuto delle grandissime artiste, fra cui Renata Tebaldi.
Certo, Maria Callas è stata quella che ha cambiato un po’ l’aspetto della lirica e quindi questo certamente ha creato una nuova scuola di pensiero e per questo lei dovrà sempre essere ricordata.
E’ stata grande in tanti ruoli che ascoltati ancora oggi sono modernissimi, il suo modo di essere è moderno adesso dopo tanti anni che non c’è più. Questo è il suo grande merito. A livello vocale abbiamo avuto tante altre grandi cantanti oltre a lei.
Fabio: io aggiungerei il contributo portato dall’effetto mediatico verso l’immagine della Callas, forse un po’ come per Caruso inventore del disco, che ha contribuito ad alimentarne il mito. La Callas ha inciso come nessun altro prima di lei, e in proporzione, ha più inciso di quanto non abbia cantato. Infatti la grande Callas è durata dieci anni mentre tutta la produzione EMI è proseguita anche in seguito.
Daniela: e l’effetto mediatico è proseguito anche a livello di gossip addirittura anche in seguito alla sua morte. Lei era sicuramente una donna di grande personalità e di grande temperamento e questo sicuramente è rimasto negli animi di chi l’ha ascoltata. Inoltre smettendo di cantare presto, ha lasciato alla gente ancora un po’ di voglia di sentirla e purtroppo l’impossibilità di realizzare questo desiderio.
Considerate costruttive eventuali “critiche” che provengono dal pubblico ?
Daniela: sono sempre costruttive, se espresse in buona fede
Fabio: esatto, questa è la cosa più importante! Noi nel nostro lavoro ce la mettiamo sempre tutta. Per cantare dobbiamo essere in perfette condizioni fisiche e emotive, allo scopo di poter rendere al meglio in ogni recita. E’ chiaro che accontentare tutti è impossibile. Parlavamo prima di Callas, Tebaldi, Del Monaco, Di Stefano: le varie fazioni sono sempre esistite e possono anche contribuire ad aumentare l’interesse intorno all’ambiente, ma è importante che nascano e si alimentino in maniera onesta e spontanea. Non c’è bisogno di artifici o di confronti inventati da alcuni giornalisti con l’unico scopo di creare a tutti i costi degli antagonismi. Lasciamo che il pubblico, se ne ha voglia, se le crei da solo queste situazioni.
A vostro parere, cosa si dovrebbe fare per togliere un po’ di quella polvere accumulatasi nel corso degli anni sul mondo della lirica, tanto da farla apparire, agli occhi di moltissime persone, come una forma teatrale vecchia e/o di elité? Non ritenete che una sorta di sdrammatizzazione dell’ambiente (a tutti i livelli, anche a livello di melomania) dovrebbe ritenersi necessaria soprattutto allo scopo di appassionare e quindi richiamare sempre più giovani spettatori a teatro?
Daniela: Io sono d’accordissimo sul fatto che sia necessario fare qualcosa per avvicinare i giovani all’opera. Per esempio si potrebbero aprire le prove di palcoscenico alle scuole, alle università, ai licei, perché secondo me questo avvicinerebbe molto i giovani ad un mondo che appare diverso. Io faccio l’esempio di mio figlio o la figlia di Fabio: ogni volta che vedono un’opera e la vedono creare, vivendo le prove, si appassionano enormemente. Mio figlio di dieci anni sa tutta l’Adriana Lecouvreur a memoria perché l’anno scorso a Napoli, vivendo le prove, si era appassionato enormemente.
Questo genere di iniziative ogni tanto vengono realizzate da qualche teatro, e sono importanti perché in questo modo i ragazzi hanno la possibilità di toccare con mano questo mondo che magari potrà apparirgli meno polveroso di quanto sembra visto da fuori. Un’altra cosa è il tentativo che bisognerebbe fare per abbassare un pochino i prezzi. Per esempio l’Arena è il teatro popolare per eccellenza, non si può pensare di spendere una fortuna per due poltrone. E il discorso prezzi è importante proprio per avvicinare il pubblico giovane in quanto sicuramente non ha la possibilità di spendere 100€ per un biglietto. Per abbassare i prezzi si potrebbero utilizzare un po’ di più le produzioni che già esistono, spendendo meno nelle nuove, magari facendole girare un po’ di più fra i vari teatri. Altra cosa è la televisione: se si parla di lirica in televisione quando va bene è mezzanotte o in casi eccezionali le 23,30. Bene! La televisione sappiamo che è il mezzo mediatico per antonomasia; per tutti quelli che vi appaiono quasi automaticamente si crea un seguito, basti pensare al Grande Fratello grazie al quale uno basta che si lavi i denti e si gratti la testa davanti ad una telecamera per diventare conosciutissimo. Allora perché non aprire anche alla cultura fasce orarie un po’ più umane? Come si può pensare che un giovane si appassioni alla lirica se non la vede mai? I giornali non ne parlano, in televisione men che meno…
Fabio: anche secondo me è importante coinvolgere i giovani attraverso la partecipazione alle prove, così da fargli capire che comunque alla base di tutto c’è il canto e il cantare è una cosa che possono fare tutti; quindi non è un mondo distante, bensì è un mondo che potrebbe coinvolgerli anche come parte attiva.
Questo è un aspetto che spesso ci si dimentica di mettere in evidenza: si tratta di cantare.
Ragazzi cantate, perché cantare fa bene e prima che ad ogni altra cosa, fa bene allo spirito.
Cantare è alla portata di tutti… la donna è mobile la possono cantare tutti, poi ci sarà chi la canta meno bene ma che comunque si divertirà, chi invece riuscirà meglio potrà andare a cantarla in teatro, guadagnando dei bei soldini. Cantare fa parte della nostra tradizione, perché non prendere in considerazione il farlo per passione tentando di farne la propria professione?
La musica può creare anche posti di lavoro, non è un mondo chiuso e morto… è un mondo aperto faticoso ma altrettanto vitale rispetto ad altri mondi professionali; questo è da tenere presente.
Daniela: poi da mamma dico anche che la “nostra” musica aiuta a tenere lontani i ragazzi da certi ambienti, dove circola l’ecstasy piuttosto che di peggio. La musica soddisfa a livello emotivo, anche per questo secondo me è importante.
Cosa raccomandereste come prima cosa ad un giovane che volesse intraprendere una carriera come cantante d’opera?
Daniela: personalmente raccomando sempre la calma.
Ogni giovane cantante all’inizio vuole correre, vuole arrivare, per cui bisogna convincerlo a mettere da parte l’arrivismo e pensare alla propria formazione vocale, perché senza quella non si arriva da nessuna parte; oppure ci si arriva un attimo ma poi ci si sgretola. Quindi io raccomando sempre la calma. Diciamo che bisogna pensare a diventare bravi e non famosi.
Fabio: sono d’accordo con Daniela e aggiungerei come consiglio al cantante che sta tentando di muovere i primi passi, di non aver paura a rifiutare qualche impegno, perché la carriera si costruisce di più con i no che con i si. Un no, ti farà impegare un po’ di tempo in più ma magari è proprio il tempo che mancava per completare la maturazione.
Come conciliate i vostri impegni di lavoro con il vostro tempo libero? Avete qualche hobbies che vi appassiona?
Daniela: ce li avremmo, se avessimo un po’ più di tempo. Diciamo comunque che ci sforziamo di ritagliarci del tempo libero anche in considerazione del fatto che abbiamo due bambini che hanno bisogno di noi, così come noi abbiamo bisogno di loro. Io devo dire sinceramente che quando sto lontana da mio figlio per più di quindici giorni comincio a vaneggiare per cui cerchiamo tutti di stare insieme il più possibile. Ora per esempio i nostri figli verranno a Tokyo con noi.
Va detto che avendo la fortuna di lavorare insieme, il tempo libero ce lo gestiamo anche fuori casa ed a volte è anche comodo, così una volta terminata la trasferta di lavoro si può dire: “ora vado a casa a riposare!” Purtroppo però quando arrivo a casa ho comunque tremila cose da fare. Hobbies? Mah! A me piace tanto il cinema ma Fabio non mi ci porta mai…(ridendo)
Fabio: sin da ragazzo ho l’hobby del computer. Ho iniziato armeggiando con il MIDI componendo qualche canzone - ho un passato di tastierista in un gruppo di musica leggera - e l’intenzione di comporre un musical, poi dall’armeggiare con i files midi mi sono appassionato sempre più.
Devo dire che quando mi metto davanti al computer mi passano le ore come minuti ed è così che ho creato entrambi i nostri siti. Io ho sempre tenuto una statistica delle opere da me cantate e questo schedario è diventato il cuore del mio sito. Ora sto cercando di ricostruire anche la cronologia della carriera di Daniela che è una cosa molto difficile ed a tal proposito ne approfitto per lanciare un appello: “se ci fosse qualcuno che mi potesse dare una mano a ricostruire gli anni di carriera che vanno dal suo debutto avvenuto nel ’78 sino al ’90, mi farebbe una grossa cortesia. Mi servirebbero date e numero di recite delle varie opere cantate.”
Daniela: io comunque un hobby ce l’ho infatti lui, è ingrassato
Fabio: e si, Daniela è un’ottima cuoca!
Daniela: …e riuscire a far ingrassare lui è un piccolo miracolo
Sig.ra Dessì, nei giorni scorsi una sua famosa collega ha rilasciato in un’intervista al Corriere la seguente dichiarazione: "Macchè donna come le altre, sono una diva e ne vado fiera!". E’così anche per lei?
Secondo me diva bisogna esserlo dal profondo. Già una che lo dichiara, la dice lunga.
Io sono dell’idea che diva lo sei e non lo sai. Per essere diva bisogna avere una grande personalità, quello è il divismo e non il riempirsi di boa di struzzo o pettinarsi all’insù stile ancienne regime. Credo che diva si sia dentro! Quindi o ce l’hai dentro o non ce l’hai… una dichiarazione del genere mi sembra più una forma di autoincensamento che divismo vero.
Inoltre, per me il divismo è una forma propria di personalità e non di fama…
Danilo Boaretto