Restare con i piedi per terra
Signora Nilsson, quale motivo l'ha spinta a scrivere le Sue memorie?
In realtà non le volevo scrivere affatto. Il mondo è pieno di libri di memorie. Perché mai anche le mie? Ma quanto più passavano gli anni, tanto più mio marito e alcune altre persone mi hanno convinto di dover scrivere le memorie. Lo dovevo al mondo, dicevano. E va bene. Dapprima decidemmo di dare l'incarico ad uno "scrittore fantasma", ma poi abbiamo subito abbandonato questa idea. Ad ogni modo oramai il mio interesse per la cosa si era svegliato e sapevo che, se volevo scrivere le mie memorie, dovevo farlo io stessa. Anche se all'inizio non sapevo come. Ma all'improvviso mi era presa la paura che qualcuno potesse scrivere un libro su di me che non avrebbe avuto niente a che vedere con la verità. E così ho scritto il libro, faticosamente e peu à peu. Ma in assoluta sincerità!
Nel Suo libro scrive che Wieland Wagner una volta ha detto "La Nilsson era già famosa prima ancora di diventare grande". Non Le sembra un po' troppo compiaciuto da parte sua?
Aveva ragione. Lavorando con Wieland sono cresciuta in modo colossale. Soprattutto abbiamo lavorato molto seriamente all'Isolde, a Bayreuth. Naturalmente già prima di questa Isolde di Bayreuth avevo fatto - come si dice - una carriera internazionale e avevo già avuto molto successo. Si, ero già famosa prima di Bayreuth, ma non ero ancora abbastanza grande. Con Wieland sono diventata ancora più grande.
Gli è riconoscente per questo?
Moltissimo! Mi dispiace solo che siamo arrivati a collaborare così tardi. Cosa sarebbe successo se avessimo lavorato insieme fin dall'inizio? Mi fece aspettare quasi dieci anni, dopo che ci eravamo conosciuti. Ancora oggi non riesco a capirlo. Sono arrivata a Bayreuth solo dopo grandi giri. Ci sono molte persone difficili, ma Wieland era davvero estremamente lunatico. Un momento dice bianco e poi dice nero…. Quando una volta, molto presto, cantai per lui, egli ne fu talmente entusiasta che si gettò in ginocchio davanti a me e disse che con lui potevo cantare qualsiasi cosa, e poi mi ha piantato in asso e - come ho detto - ho dovuto aspettare quasi dieci anni, prima di avere il primo ingaggio a Bayreuth. E' stata un'esperienza molto dura. Wolfgang era tutt'altra persona, era molto più affidabile, e credo anche che fosse interessato alle voci molto più di Wieland, che invece cercava sempre solo dei tipi. Quando Wieland ha conosciuto un tipo di donna che gli piaceva più di me, mi ha subito abbandonato. Tra l'altro, dopo Wieland, io ho lavorato ancora molto con Wolfgang. Wolfgang Wagner era il più pratico fra i due fratelli. E doveva anche esserlo, visto che era l'unico direttore del festival dopo la morte di Wieland.
Lei sa che oggi Wolfgang Wagner viene molto attaccato, da varie parti. Crede che per Bayreuth sia arrivato il momento di riflettere e ricominciare, magari su una nuova strada?
Bayreuth non è più quello che era quando vi cantavo! Già questo concetto di "Officina" è una beffa per l'idea del festival e copre qualcosa di molto diverso dai nostri tempi. Oggi ci può andare a cantare qualsiasi principiante. Un tempo, invece, il migliore di tutti per Bayreuth era a malapena sufficiente. Oggi è completamente diverso. Si sperimenta molto. Naturalmente, per contro, Wolfgang ha fatto molti cambiamenti strutturali, ha modernizzato e abbellito molto, lo so. Ma forse sarebbe tempo per Bayreuth di un nuovo inizio. Tutti noi abbiamo solo un periodo di tempo ben determinato nel quale siamo davvero produttivi. E questo vale anche per Wolfgang Wagner. Forse anche il suo tempo sta per scadere.
Ritiene necessario che sia un membro della famiglia Wagner ad assumere la direzione di Bayreuth?
Se c'è qualcuno che se ne ritiene capace e che è all'altezza delle grosse sfide e che si intende della materia, perché no? Forse c'è qualcuno così nella famiglia. Altrimenti è doveroso cercare qualcun altro.
Il fatto che il livello canoro di Bayreuth sia sceso così drasticamente ha forse a che fare anche con il fatto che oggi non si trovano quasi più voci wagneriane, mentre nella Sua generazione ce ne erano molte?
Naturalmente questo ha giocato un ruolo molto importante. E al momento non ci sono molti in grado di cantare Wagner. Ciò nonostante dappertutto suonano Wagner, sebbene non ci siano abbastanza cantanti per cantarlo. O almeno così sembra. E naturalmente, chiunque canti Wagner vuole andare a Bayreuth. Ma proprio là sembra che si cerchino proprio le voci meno adatte.
Per molti anni Lei si è occupata delle nuove leve del canto. Crede che oggigiorno non ci siano più le belle voci che c'erano ai Suoi tempi?
Ci sono moltissime belle voci, ma sa, adesso devono cantare tutto nell'arco di un paio d'anni, per i soprani è drammatico, alcuni iniziano con la Turandot, Brünnhilde, Isolde e dopo qualche anno la voce se ne è andata. Viviamo in un tempo frenetico e febbrile. Nessuno ha tempo, niente può più crescere e svilupparsi. Tutti vogliono guadagnare molto e molto velocemente. Registi, manager e direttori vogliono soprattutto volti giovani e tipi giovanili. Finché la voce è a posto va tutto bene, ma quando è compromessa, le nuove leve successive sono già pronte fuori della porta. Lo sfruttamento selvaggio che oggi si fa sui giovani cantanti che possiedono dei buoni strumenti non può portare nulla di buono! Naturalmente anch'io ho fatto delle sciocchezze, quando ero giovane, ho cantato troppo presto in ruoli troppo grandi. Ma era il dopoguerra, e a quel tempo a Stoccolma non cantavo poi così tanto, le fila dei solisti all'opera reale erano piuttosto chiuse. Al massimo avrò fatto venticinque serate in un anno. In quel modo non ci si rovina certo la voce. Inoltre sono nata con delle corde vocali molto robuste e con un materiale vocale molto resistente. Non ho neanche cominciato a cantare troppo presto. E questo mi ha salvato. Naturalmente ci sono anche delle eccezioni, come ad esempio Astrid Varnay. Aveva solo ventidue anni e cantava già Brünnhilde al Met. Io ero ancora a cavare patate nella fattoria dei miei genitori.
Secondo Lei com'è che oggi la precisione viene tenuta in così bassa considerazioni e che spesso si fanno errori di canto, e come mai così tanti direttori tollerano da parte dei cantanti una tale sciatteria e imprecisione?
Dipende da molte cose. I cantanti di oggi sono fortemente orientati a modelli su cd. Ascoltano cosa cantano i colleghi, come cantano e molto spesso non si formano un giudizio autonomo basato sullo studio della partitura. Si limitano a copiare ciò che hanno ascoltato, ma così copiano anche i piccoli errori e le imprecisioni. Se oggi si ascoltano sette cantanti uno dopo l'altro si ha l'impressione che cantino tutti allo stesso modo. Non si differenziano più. E come possono avere un suono diverso se la loro voce non è espressione della loro personalità. Sanno solo imitare. In più si aggiunga che oggi ci sono pochi concertatori veramente bravi. E tutti vogliono dirigere. I direttori per lo più non hanno tempo per lavorare con i cantanti, figuriamoci poi per studiare le parti insieme a loro. Di regola cantanti e direttori oggi si incontrano solo alla prova d'orchestra. Ai miei tempi era completamente diverso! Se penso al giovane Georg Solti, che precisione si aspettava da noi e che profonda preparazione che pretendeva! Allora a Bayreuth c'erano un paio di fantastici concertatori. Hermann Weigert era impareggiabile, era il marito di Astrid Varnay. Con lui regnava sempre una precisione totale, fino ad ogni singola nota, alla più piccola sfumatura dell'espressione. Oggi non saprei citare nessuno con questo livello di professionalità. E questo si capisce proprio dai cantanti di oggi. Ho avuto spesso a che fare con giovani cantanti. Spesso dovevano preparare Sieglinde, Fidelio, Isolde. Chiedevo loro se avessero un buon concertatore. Per lo più rispondevano che no, nessuno particolarmente bravo, solo uno così, per fare qualche scala…. Però ho dei buoni cd. Cosa si può rispondere? Certo, ascoltando si può imparare molto, senza dubbio. Ma le parti vanno per prima cosa studiate da soli, a fondo, per potervi imprimere il proprio stampo inconfondibile. L'interpretazione personale di una parte la si ottiene solo con uno studio profondo. E non ha senso parlare di una seconda Callas. Ce n'è solo una. La seconda non conta nulla.
Appunto, e c'è anche soltanto una Nilsson. Una copia non si vede da nessuna parte.
Mi hanno detto spesso, quando ero giovane, che io ero una seconda Flagstadt. Mi sentivo molto onorata, però rispondevo semplicemente che preferivo rimanere la prima Nilsson!
Lei ha cantato 16 anni a Bayreuth, 28 anni a Vienna, molto a lungo anche in America, all'inizio del Suo percorso per molti anni a Stoccolma. Quali anni sono stati i più importanti?
Tutte le tappe sono state importanti! Ho imparato qualcosa in ogni posto. E tutti i palcoscenici, tutte le città offrono qualcosa che non si trova in nessun altro luogo. Per crescere bisogna andare in giro per il mondo e lavorare con diversi registi, direttori e colleghi. Restare a fare il cantante in un posto solo significa sempre ristagnare. Ovviamente in ogni posto si fanno rappresentazioni indimenticabili, e anche alcune che si vorrebbero dimenticare il più velocemente possibile.
Lei ha cantato dappertutto, ma non ha mai fatto da nessuna parte una rappresentazione d'addio. A Bayreuth ha smesso di cantare improvvisamente nel 1970, allo stesso modo a Vienna, in modo del tutto inaspettato, nel 1982. Era così difficile per Lei chiudere in modo ufficiale?
Penso che dire "arrivederci", salutarsi, sia sempre un po' morire, è come una piccola morte. Quando ero ancora una giovane cantante sono andata alla rappresentazione d'addio di una vecchia collega a Stoccolma. Ha voluto cantare un'ultima volta Brünnhilde. Io ho pianto per tutta la serata. Sapere che non si starà mai più su un palcoscenico, ma come si può sopportare una cosa del genere mentre si canta? Quella sera ho giurato a me stessa che, se mai fossi diventata una grande cantante, non avrei mai dato una rappresentazione d'addio. Non potrei mai! Solo al pensiero mi viene da piangere. Credo che Rudolf Bing, il direttore del Metropolitan, avesse ragione dicendo che è meglio che la gente chieda "ha già smesso di cantare?" piuttosto che "ma canta ancora?". Lo ammetto, forse avrei dovuto smettere un po' prima. Ma tutti fanno delle sciocchezze. Ad ogni modo, sono stata in grado di cantare tutte le note fino alla fine, anche se non come prima. In effetti al pubblico pagante bisognerebbe offrire sempre solo il meglio del meglio. Ma non è sempre così facile. E poi i contratti si fanno sempre con tre anni di anticipo. Negli ultimi dieci anni della mia vita artistica ho sempre firmato contratti con la condizione che avessi ancora la voce.
Non ha sofferto a smettere dopo essere salita sul palcoscenico per l'ultima volta?
No, sono un a persona pratica e ragionevole e so che ogni cosa ha il suo tempo. Proprio come canta la Marescialla. Tutto ciò che esiste ha una fine, canta Erda nel "Ring", bisogna accettarlo. Se non lo si accetta si è terribilmente infelici. Mio marito, tra l'altro, era molto nervoso quando ho passato i cinquanta, perché temeva che, una volta che avessi dato l'addio, sarei diventata insopportabile. Dicevo sempre che non sapevo cosa avrei fatto dopo. Ma in effetti, vista a posteriori, non è stato affatto un problema. Grazie a Dio non faccio parte di quelli, fra i miei colleghi, che non possono vivere se non cantano più. Posso vivere bene anche senza teatro.
Quale era per Lei la cosa più importante quando cantava?
Tutto è importante. Naturalmente cercavo di esprimere con la voce il più possibile. Doveva avere un bel suono e commuovere gli spettatori. Quando avevo una brutta giornata cercavo di nasconderlo scherzando vivacemente, tutto qui!
Non dipende spesso anche dal direttore se un cantante sbaglia?
Ma certo! Con un direttore si può rinascere, ma si può anche morire! Non si sopravvaluterà mai l'importanza del direttore per il cantante.
Lei ha lavorato con molti direttori famosi. Anche con Herbert von Karajan, che si sforzava sempre di dirigere a memoria. Per la qual cosa Lei ha avuto delle esperienze spiacevoli.
Qualsiasi direttore che diriga un'opera a memoria è pericoloso e rende nervosi i cantanti. E Karajan ci ha lasciato molto spesso nei guai perché non sapeva più come andare avanti, con il suo dirigere a memoria. Mitropoulos era un'eccezione fenomenale, conosceva ogni cifra, ogni singola nota a memoria. Non mi è mai più capitato di vedere qualcosa di simile. Anche con Lorin Maazel ho avuto un'esperienza catastrofica, a Berlino, quando diresse al Deutschen Oper il suo primo Fidelio, e anche lui si vantava di dirigere a memoria. Era molto insicuro, saltò un dialogo e poi ci rovinò tutto il finale perché non diede l'attacco a Hans Beirer, che cantava Florestan. E tutto il teatro sapeva che Beirer ha sempre bisogno dell'attacco! Beirer quindi entrò fuori tempo. In conseguenza di ciò anch'io entrai fuori tempo. Guardai Lorin Maazel in cerca di aiuto, ma egli non mi aiutò. Erika Köth, che cantava Marzelline, cominciò a piangere. Tutto il finale fu un incubo. L'intero teatro fischiava da far tremare le pareti! Fu terribile. Ma una volta mi è successa una cosa simile con Karajan, nel secondo atto del "Tristan". Anche lui, ovviamente, stava dirigendo a memoria. Ad un tratto non sapeva più come andava avanti. Io andai fuori tempo, cantai male e cercai un suo attacco. Di tanto in tanto a tutti i cantanti capita di aver bisogno di un attacco! Il direttore è lì apposta per aiutare i cantanti. Ma Karajan non mi aiutò, e come avrebbe potuto? Neanche lui sapeva più a che punto eravamo. Spesso, mentre dirigeva, sognava a occhi aperti. Perfino il suggeritore, arrabbiato e in cerca di un aiuto, guardò verso Karajan, sul podio. Ma non servì a nulla.
Come è noto Karajan aveva un rapporto di particolare attrazione con il denaro. Secondo Lei è vero?
Oh si, assolutamente! Una volta eravamo ad una prova musicale del Tristan. Mi suonò il Tristan. Allora era solito portare a Vienna i cantanti della Scala di Milano, che naturalmente dovevano essere pagati molto di più dei viennesi. A Vienna si cantava per molto meno che a Milano! Dunque provavamo il Tristan. All'improvviso la mia collana di perle si strappò e le perle rotolarono per terra. Tutti si chinarono per raccoglierle. Anche Karajan mi fece la grazia di chinarsi, raccolse una grossa perla e disse: "Santo cielo, che belle perle, queste se le è comprate di sicuro con il suo cachet della Scala." "No, signor von Karajan", dissi io, "sono solo delle imitazioni, sono perle false, con il cachet di Vienna non posso permettermi niente di più." Un'altra volta stavamo di nuovo provando il Tristan. Allora disse: "Ancora una volta, signora Nilsson, ma stavolta con il cuore. Il cuore è lì dove tiene il suo portafoglio." "Oh", risposi accorata, "allora abbiamo almeno una cosa in comune, Maestro!"
Come era il Suo rapporto con i soldi?
Gliel'ho già detto, sono una persona pratica. E conosco la differenza tra un biglietto da dieci marchi e uno da mille marchi. All'epoca ci pagavano ancora in contanti, nella pausa della rappresentazione. Ero consapevole delle mie capacità e sapevo stimare il mio valore sul mercato. Il mio repertorio era il più difficile fra tutti i ruoli da soprano. Perciò insistevo sempre per avere il cachet massimo. Non un marco di meno. Se mi accorgevo che mi avevano preso in giro non c'era da scherzare con me. Per cui, vede, avevo un rapporto molto semplice con il denaro. Ovviamente ho cantato anche in molte rappresentazioni di beneficenza senza percepire alcuna ricompensa. Ho cantato anche in teatri che non potevano pagare un soldo, cosa che vale anche per Bayreuth, là sostanzialmente ti danno un po' di mancia in più, tutto qui. Ma nei grossi teatri non sentivo ragioni. Era semplicemente più che giusto che mi dessero il cachet massimo. Questo l'ho imparato dal vecchio Erich Kleiber. Una volta mi consigliò calorosamente: Signora Nilsson, lei deve rendersi preziosa, pretendere sempre il cachet più alto e non deve assolutamente cantare troppo spesso in un teatro!
Sir Rudolf Bing pare che una volta abbia detto: "La Nilsson è affidabile come un distributore automatico, basta che ci butti dentro abbastanza soldi e subito viene fuori della bella musica". Ma ora cambiamo argomento. Torniamo ai direttori con i quali ha lavorato. Un tipo di direttore completamente diverso da von Karajan era Hans Knappertsbusch, che diceva sempre: "Perché devo dirigere a memoria? Posso leggere le note!"
Era un direttore favoloso. Ma con lui ho vissuto anche dei momenti scioccanti, che non dimenticherò mai! Durante una rappresentazione mi ha strapazzato come nessun altro direttore né prima né dopo di lui. Stavo cantando con lui la Salomè, senza prova. Lui non provava mai. Ho cantato anche tutto il Ring senza prove, con lui. Dunque, come ho detto, si trattava di una Salomè, credo che fosse il 1955 o il 1956. Bisogna sapere che a lui la Salomè non piaceva per niente. Ma ha sempre continuato a dirigere quell'opera. Forse perché è così breve ed era così ben pagata. La seconda serata di questa serie di Salomè cantò un certo Jochanaan che era molto insicuro e faceva molti errori. In più Knappertsbusch era di pessimo umore. Poco prima che Jochanaan salisse nella cisterna fece un altro errore. Allora Knappertsbusch si alzò e lo insultò fortissimo. Durante la rappresentazione! Ero completamente annichilita e pensavo soltanto: e se succede a me! Ero fuori di me per la paura e l'agitazione. Quando la testa venne alzata dalla cisterna io, naturalmente, attaccai troppo presto a causa del mio nervosismo. Allora Knappertsbusch si alzò di nuovo e mi gridò fortissimo, verso il palcoscenico: "stronza". Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Ho pianto e cantato per tutta la scena finale. E Knappertsbusch non mi ha più degnato di uno sguardo per tutta la durata della rappresentazione. E' stato terribile! Dopo la rappresentazione se ne andò dalla fossa dell'orchestra dicendo "merda". Era fatto così. Sono rimasta in casa a piangere per 14 giorni. All'epoca ero ancora una principiante. In seguito, ogni volta che ricantavo la Salomè, mi tremavano le gambe appena salivo sul palcoscenico. Knappertsbusch mi ha danneggiato molto. Non avrei più voluto cantare con lui. Per un anno intero sono anche riuscita ad evitarlo tassativamente. Poi venni per cantare Fidelio. E all'improvviso dissero, stasera dirige Knappertsbusch.
Si è scusato per i suoi modi grossolani?
Non si scusava mai di nulla. Ma dopo la rappresentazione venne sul palcoscenico, mi mostrò i suoi gemelli svedesi e mi fece un complimento. Disse che era stata una bella rappresentazione. E poi aggiunse: "L'anno scorso l'ha rovinata, non lo faccia mai più!"
Torniamo a Rudolf Bing, il leggendario direttore del Metropolitan di New York. Nelle Sue memorie gli ha dedicato un intero capitolo e lo ha onorato moltissimo. A molti Suoi colleghi non piace affatto.
Lo so. Ma io gli piacevo, anche se non da subito. Ci capivamo bene. Era un fantastico organizzatore, era assolutamente affidabile, di lui ci si poteva fidare. Io lo ammiravo molto come direttore di teatro. Lui e Kurt Adler, a San Francisco, erano i migliori direttori di teatri dell'opera che io abbia mai conosciuto. Sapevano moltissime cose, erano perfetti nel loro mestiere e manager illuminati. Naturalmente erano persone difficili, soprattutto Kurt Adler, che era molto arrogante. I primi anni abbiamo litigato molto. Ma ad un certo momento ci trovammo e da allora fummo sempre buoni amici. Ogni volta che in Europa tenevo un'importante rappresentazione, lui mi telefonava da San Francisco per sapere se avevo avuto successo.
Il Suo percorso è cominciato a Stoccolma. E anche a Stoccolma ha dedicato un grosso capitolo delle Sue memorie.
Si, perché quando ho cominciato a scrivere pensavo che il mio libro avrebbe riscontrato interesse soprattutto in Svezia. Inoltre Stoccolma è stata la mia casa dal punto di vista artistico. Tranne poche eccezioni, ho imparato là tutte le mie parti, e là le ho cantate per la prima volta, anche se in svedese. In Svezia ho studiato a fondo tutto il mio repertorio, la base della mia carriera internazionale.
Che cosa La spinse ad andare dalla Svezia nel grande mondo operistico?
In realtà non mi interessava affatto, perché a Stoccolma mi ero fatta un nome. Preferivo essere una cantante di prima classe a casa mia piuttosto che una magari di seconda classe nel resto del mondo. In Svezia mi sentivo sicura. Ma in paesi stranieri e in lingue straniere era tutta un'altra cosa. Dovevo imparare di nuovo tutti i miei ruoli in lingua originale, cosa non certo facile. Ci volle parecchio tempo prima che riuscissi a cantare in italiano e tedesco con la stessa intensità con cui cantavo in svedese.
Ma all'epoca l'opera di Stoccolma era frequentata da molti direttori stranieri. Knappertsbusch, ad esempio, egli fu il primo che volle portarmi a Bayreuth, Fritz Busch volle ingaggiarmi per Glyndebourne. Glyndebourne fu la mia prima apparizione fuori dalla Svezia. Poi ci furono Firenze, Genova, Milano e il resto del mondo. All'estero avevo successo e a poco a poco mi accorsi che mi potevo imporre anche fuori dalla Svezia. Ciò mi tolse la paura, e alla fine riuscii anche a divertirmi nell'essere una cantante d'opera sempre in giro per il mondo.
Ha sempre voluto essere una cantante?
Si, fin da bambina. Ogni volta che vedevo una stella cadente esprimevo il desiderio di diventare una grande cantante. Ma naturalmente, da bambina di campagna, non avevo la minima idea di cosa fosse una cantante di opera.
Quando cantò al conservatorio reale di Stoccolma si fece coraggio con un bicchiere di Porto che Le diede Sua madre, così scrive nelle memorie.
Si, lei è sempre stata un po' anemica e credeva nel potere del Porto. Le piaceva bere un bicchierino. E devo dire che per quella volta mi ha aiutato.
Ha mantenuto questo rito anche per le sue apparizioni in seguito? Della Flagstadt, ad esempio, si dice che prima delle sue rappresentazioni si servisse volentieri e con disinvoltura di buon cognac.
La Flagstadt era molto robusta, ancora più robusta di me! Ma io, per amor del cielo, no, non ho mai bevuto prima delle mie rappresentazioni. E non ho mai fatto entrare nessuno nel mio camerino.
Avevo sempre bisogno di una calma assoluta, dovevo concentrarmi perfettamente sul mio ruolo. Nessuno doveva disturbarmi. Semplicemente mi serviva il silenzio. Grazie a Dio riuscivo a stare parecchio da sola anche fuori dal camerino. Ero molto spesso sola nei miei viaggi. Le feste e gli impegni sociali non mi piacevano. E mio marito non mi svolazzava sempre intorno, raramente veniva in viaggio con me. Se penso ai mariti di alcune colleghe! No, mio marito non era un signor Nilsson! E non potevo neanche pretendere da lui che cambiasse la sua vita a causa mia e si adattasse a me. Così dovevo sempre contare solo su me stessa. E questo mi ha reso forte.
La vita matrimoniale non era danneggiata dal tipo di vita condotta da un'artista di fama mondiale?
Naturalmente ne era danneggiata! Ma non si può sempre avere tutto. Mio marito ha capito che all'estero io avevo la possibilità di crescere e di costruire qualcosa. Non mi ha mai ostacolato, né mi ha mai chiesto di cantare di meno per amor suo.
Lei ha cantato il genere italiano, Mozart, Strass e Wagner. Cosa è stato per Lei più importante?
Naturalmente, come ogni cantante, mi interessavano molto le parti italiane. Ma all'Opera di Stoccolma, dove ho cominciato, in realtà non c'era nessuno che dominasse veramente il repertorio italiano, intendo i direttori. Però avevamo due o tre direttori d'orchestra dalla Germania che sapevano dirigere Wagner molto bene. E così automaticamente ho cantato sempre di più Wagner, anche perché mi capitavano sempre parti wagneriane che all'epoca erano troppo grandi per me. In compenso ho imparato lo stile di Wagner a fondo, e da subito. Naturalmente ben presto amai i ruoli wagneriani, per quanto essi siano faticosi, e non solo per un principiante.
Quale è la cosa più importante per un cantante wagneriano?
Bisogna avere una buona tecnica e la voce adatta, per natura e resistenza, a mantenere una parte del genere. Se bisogna economizzare la propria voce e regolarsi per come resistere per tre atti comincia a essere un po' pericoloso. Io non l'ho mai fatto, ho sempre cantato a tutto gas, come si dice. Anche il testo in Wagner è molto impegnativo, e bisogna conoscerlo e capirlo! Non sono un paio di frasette ripetute come in Verdi. Inoltre non bisogna rimanere pronti solo a livello di gola, anche la testa deve essere sveglia in un'opera così lunga, come ad esempio nel Tristan. E questo vale sia per i soprani altamente drammatici che per i tenori drammatici .
Chi era il suo tenore preferito come partner?
Più spesso e più volentieri di tutti ho cantato con Wolfgang Widgassen. Naturalmente lui non era uno di quelli che si strappano i vestiti di dosso o che fanno cose pazze. Ma era un grande attore, perché aveva gusto. Era affidabile e aveva una voce particolare. Si criticava sempre il fatto che la sua voce fosse così piccola. Ma la grandezza di una voce non è la cosa più importante. La sua voce aveva portata, era concentrata, andava a segno! Preferisco ascoltare un bel timbro, piuttosto che qualcuno che canta forte ma che magari tremola. Devo dire che io stessa rimasi stupita dalla voce di Windgassen quando lo sentii per la pria volta nel "Lohengrin". Pensai, che tenore mozartiano! Lo consideravo in realtà un tenore lirico. Non credevo che avrebbe potuto cantare Siegfried. E invece quante volte lo ha cantato. Aveva delle corde vocali incredibilmente forti. La sua costituzione fisica era fenomenale. Perfino a Buenos Aires, dove i cantanti europei si prendevano sempre un raffreddore, ha resistito per tutte le rappresentazioni di Siegfried nonostante il raffreddore, e ogni rappresentazione era meglio della precedente. Da questo punto di vista era in effetti un po' matto, non ne aveva mai abbastanza di cantare. Quando cantava un paio di Tristan a Milano capitava che tra una e l'altra volasse fino a Stoccarda per cantare un Siegfried o qualcosa d'altro. Io non credevo che avrebbe resistito più di un paio di settimane. Ma invece da queste sue maratone si rigenerava nell'arco di pochi giorni. Una cosa del genere non l'ho mai vista in nessun altro cantante. E Windgassen non ha mai esagerato. Anzi, forse ha dato meno di quanto potesse, semplicemente la sua voce glielo permetteva. E' questo il segreto di una voce, deve avere il nocciolo duro, come una ciliegia. Tanto fiato da solo non basta a portarti sopra all'orchestra. Dipende tutto dall'intensità, dalla focalizzazione. Non bisogna far uscire il fiato dal camino.
E' facile a dirsi quando si dispone di uno strumento come il Suo!
Si, lo ammetto, io ho sempre voluto cantare le parti drammatiche, anche se Wieland Wagner mi considerava un soprano lirico e mi mise in guardia contro Isolde e Brünnhilde.
In altre parole: voleva essere la primadonna di Wagner. Anche nella vita privata si sentiva una primadonna?
No, primadonna lo si può essere sul palcoscenico, se si è in grado di cantare il ruolo giusto, ma non nella vita! Sarebbe troppo faticoso. Credo che le cantanti che nella vita privata si comportano da primedonne forse è perché lo sono state troppo poco sul palcoscenico. In ogni caso scambiano la vita con il teatro.
Questo a Lei non è mai successo! E' per questo che non ha avuto paura di dire un giorno addio al teatro per dedicarsi finalmente alla vita?
Sa, ci sono cantanti che dimenticano la loro vita di quando non erano ancora primedonne, e poi non vogliono più avere niente a che fare con la vita normale. Vivono solo in una vita teatrale. A me non potrebbe mai succedere! Non ho mai lasciato la mia origine e la mia terra. Sono nata sotto il segno del toro e rimango con tutti e due i piedi per terra. I tori non li tiri su tanto facilmente!
di Dieter David Scholz
tratto da Mito Primadonna - 25 dive confutano un cliché.
Conversazioni con grandi cantanti.
(312 pag. , Parthas Verlag 1999)
http://www.dieter-david-scholz.de/mythos_primadonna_nilsson.htm [5]
Redazione OperaClick