Rigore, dedizione e passione hanno contrassegnato la lunga carriera del soprano, intelligente custode della raffinata arte del canto pucciniano”, con questa motivazione viene consegnato a Giovanna Casolla il 41° Premio Puccini.
È il 29 novembre, anniversario della morte del Maestro, una giornata autunnale, il cielo e il lago color ardesia. La cerimonia è volutamente semplice e, proprio per questo, particolarmente emozionante: il corteo verso la tomba del Maestro, la corona deposta ai piedi della statua sul Belvedere, le autorità, il gonfalone comunale e, su tutto, il silenzio di questa piccola folla composta.
Poi la premiazione nel corso di un incontro-intervista in cui domande e risposte, ricordi e considerazioni si accavallano, sì che vengono alla luce l’espansività e la schiettezza, venata di innata simpatia partenopea, di Giovanna Casolla. Ho la fortuna di condurre questo incontro che presto si trasforma in una chiacchierata informale: “Ed eccoci in famiglia!” celia infatti Paolo Spadaccini, il presidente-melomane del Festival Pucciniano.
La signora Casolla è sinceramente commossa, gli occhi neri, brillanti. “Sono orgogliosa e onorata per questo premio: è frutto di una conquista, costruita sera dopo sera così come tutto quello che ho ottenuto. Io non faccio parte dello star system e oggi posso esserne orgogliosa perché per me, ripeto, tutto è stato una conquista!
Ma devo ringraziare voi: il pubblico, gli addetti ai lavori, che sempre mi avete sostenuto, che sempre mi avete dato così tanto e che – lo dice ridendo – spero che mi darete ancora perché, vi avverto: io non mollo!”
Sicuramente grazie anche a un importante mezzo vocale per estensione e volume,lei viene considerata come una delle Turandot di riferimento, si riconosce in questa definizione?
“Mah … lo dicono! E pensare che all’inizio della mia carriera mi dicevano “Lei è Tosca!”, e infatti il ruolo di Tosca è quello che, poi, ho interpretato più volte. Ho contato 560 recite, ma sono di più. Indubbiamente l’estensione vocale, il volume, mi hanno aiutata in questo personaggio, però ricordiamoci che Turandot va cantata e non gridata: Puccini ha scritto anche i piano in questo ruolo! Comunque le doti, che sono innate, devono sempre essere supportate da tanto, tanto studio: non si finisce mai di studiare. Per esempio: i piano sono stati una conquista per me, avevo una gran voce, ma non avevo i piano. Ricordo che cantavo da non molti anni quando venni invitata a Buenos Aires per interpretare Adriana, pensate che io piangevo, e mi dicevo: “ma come farò a cantare Poveri fiori?! Come farò a fare i legati?!” Ho studiato molto, cercando con caparbietà quello che non avevo e quell’Adriana è stata una grande conquista, fatta di studio e di sacrificio. Adesso quei piano me li ritrovo, mi servono anche per cantare Turandot!
Riguardo alla mia estensione vocale, beh, vengo definita un soprano falcon e credo di esserlo: faccio anche ruoli ibridi mezzo sopranili come Carmen e Eboli … dicono anche che io abbia fatto sia Amneris che Aida, ma è sbagliato: non sono mai stata Aida.
Sicuramente, però, Turandot mi ha dato molte soddisfazioni: nel 1998 sono stata chiamata a Pechino per farla con il maestro Mehta, nella Città Proibita, e anche quella fu una conquista! Cantavo da oltre vent’anni, avevo fatto varie Turandot ma Zubin Mehta non mi conosceva; comunque venni invitata dal Maggio Musicale per farmi ascoltare da lui e io, con determinazione ma anche con umiltà, perché in questa carriera l’umiltà conta tanto, dissi “Mi farò conoscere dal Maestro, però se va bene voglio che venga fatto il video!”, ripeto: non faccio parte dello star system e questa produzione era un’occasione a cui tenevo in modo particolare. Al primo incontro con il Maestro ero assieme al compianto Sergej Larin, che avrebbe interpretato Calaf. Mehta subito mi disse: “Cominciamo da In questa reggia”, io lo guardai e risposi: “Maestro, qua abbiamo un tenore e Puccini ha scritto una parte per tenore nel primo atto. Cominciamo da quello, e se vuole io posso farle La romanza del dito!” (e ride, mettendo il dito indice di fronte a se, nel gesto di diniego che Turandot fa proprio nel primo atto). Lui rise, io dopo cantai, lui fu contento, ebbi la parte e il video! Poi c’è stata l’altra importante produzione a Pechino proprio con il Festival Pucciniano, era il 2008, il centocinquantesimo anniversario della nascita del Maestro Puccini. Con quella produzione venne inaugurato il New National Theatre e per la prima volta venne eseguito il finale scritto da Hao Weiya.Un’altra data importante è il 1999 a Barcellona, quando venne fatta Turandot per la riapertura del Liceu dopo l’incendio del ’94.”
Lei ha cantato nei diversi finali che sono stati scritto per Turandot, da quelli di Alfano a quello di Berio e a quello di Hao Weiya, di cui è la prima interprete assoluta: quale è quello che, musicalmente, vocalmente e drammaturgicamente, la colpisce di più?
“Indubbiamente quello di Alfano, il primo. Ho fatto anche l’integrale di Alfano, proprio a Barcellona, ma il primo è il più convincente: difficile, molto difficile, ma è quello che preferisco.”
Nella sua carriera si è distinta anche in un repertorio moderno, verista, in titoli meno consueti e poco eseguiti: non crede che questo repertorio dovrebbe avere maggiore visibilità?
“Sì, assolutamente! Pensi che ho esordito a Spoleto con Napoli Milionaria di Rota. Un ricordo indimenticabile: io, napoletana, per tre mesi a stretto contatto con Eduardo De Filippo che ne curava la regia! Ho imparato tantissime cose … Poi ho fatto il Marchese di Roccaverdina, Turandot di Busoni, Cassandra di Gnecchi, La fiamma e La campana sommersa di Respighi, Giulietta e Romeo di Zandonai, Il castello del Principe Barbablù di Bartok … decisamente è un repertorio poco eseguito, peccato… pensi alla Wally stessa: quando mai ci sono occasioni per poterla vedere? Ho fatto anche il Salvatore Giuliano di Ferrero, un’opera contemporanea che meriterebbe essere conosciuta.”
Ma siamo a Torre del lago, in casa di Giacomo Puccini, un luogo che lei frequenta e ama, riamata, da anni: ha qualche ricordo particolare di questo Festival?
“Il mio ricordo più bello non riguarda un’opera: era il ’91 e chiudemmo il Festival con un concerto intitolato “E lucean le stelle”. C’erano Ghena Dimitrova, Fiorenza Cossotto, Giacomini ed io. È stata una serata entusiasmante, in cui tutti noi abbiamo dato l’anima! Il pubblico era partecipe come non mai e questo ci galvanizzò in maniera incredibile. A me piace instaurare un contatto con il pubblico e devo dire che ci sono riuscita quasi sempre. Il pubblico percepisce se non riesco a stabilire questo contatto e io ne risento. Perché, vede, il sentire il pubblico che “dà” mi mette in condizioni di donare … e qua, a Torre del Lago, il pubblico mi ha sempre dato, qua ho tanti ricordi, tanti partner importanti e con cui ho lavorato bene… menzionarne uno sarebbe un voler fare un torto all’altro! Ho, però, un ricordo particolare, legato a una situazione e che ora a distanza di anni mi diverte, ma quella sera non ero propriamente contenta! Aveva piovuto molto durante tutto il giorno, però la sera riuscimmo a fare la recita. Era una Tosca e la regia prevedeva che il tenore e io ci sedessimo su uno scalino. Beh: quello scalino si era trasformato in una pozzanghera. Noi, però, ci sedemmo e finimmo la recita completamente bagnati dalla vita in giù! – ride, con gli occhi brillanti – Questo è un posto davvero particolare e per cui provo affetto…purtroppo qua non ho mai cantato Manon e Fanciulla… qua ho debuttato con il Tabarro: era il 1981 e l’anno dopo lo feci alla Scala con Gavazzeni. E poi ci sono state tante Tosche, ancora Tabarro e le Turandot!”
È particolarmente legata a un personaggio pucciniano? Una domanda abbastanza scontata, ma qual è quello che non vorrebbe mai interpretare e quello che, invece, vorrebbe fare e non ha mai fatto?
“Non ho un particolare personaggio più o meno amato, e questo non solo in Puccini, io ho amato tutti i ruoli che ho interpretato …. Però – sorride, marcando, con vivacità, l’accento napoletano – non ho mai cantato Butterfly: questa sciocca che aspetta tre anni ‘sto americano e poi gli da il figlio suo e poi si ammazza?! No, mai, mai! Io mai mi sarei ammazzata e il figlio mio mai lo avrei dato a quello!! - tutti ridiamo, lei per prima- Comunque, seriamente, io devo sentire un personaggio: se non lo sento come posso arrivare al cuore del pubblico? Sarei una pazza, non saprei farlo! C’è però un ruolo che mi sarebbe piaciuto fare ma che non riesco, è Suor Angelica. Io sono mamma di tre figli, come farei a cantare “Senza mamma bimbo tu sei morto”? Impazzirei, non potrei … Ho cantato una sola volta proprio questo pezzo, in un concerto. Ma dovetti stare attentissima nel cercare di restare distaccata, ero troppo commossa … è stato difficile e non lo rifarei più. Quando canto devo essere libera, voglio dare l’anima, devo “darci dentro”! Non posso pensare di dovermi controllare: devo essere sempre il personaggio cantato e non devo frenarmi, dominarmi. Se cerco di reprimermi non arrivo al cuore del pubblico, e questo non va bene, non è quello che voglio.”
L’incontro volge al termine e le chiediamo un ultimo pensiero: “Mi auguro che Dio mi dia la capacità di riuscire a capire quando la mia voce non risponderà più: il pubblico dovrà piangermi, nel senso che dovrò mancargli, e non compiangermi!”
Marilisa Lazzari