In questi giorni a Trieste imperversa una polemica sulla futura destinazione della Sala Tripcovich - de Banfield, che l’amministrazione comunale aveva di fatto assegnato a risorsa per rimpinguare il patrimonio immobiliare del Teatro Verdi.
Nel frattempo sono sorti alcuni comitati che si oppongono a questa decisione, ritenendo che lo spazio possa essere sfruttato più degnamente come contenitore polifunzionale in grado di ospitare musica dal vivo per i giovani. Giovani ai quali evidentemente la musica “seria” non interessa.
Questo articolo di Gianni Gori [4], già comparso un paio d’anni orsono sulla rivista “Duemila”, esprime bene l’opinione di OperaClick sulla questione.
Trieste: ascesa e crepuscolo della Sala Tripcovich-de Banfield
VERDI E I BUTTAFUORI
Ho sempre creduto che in ogni teatro – storico o moderno che sia – le voci ed i suoni, specie quelli che lasciano traccia di emozione, rimangono a dimora come fantasmi benigni tra gli stucchi e le volte del teatro, ne fanno parte, contribuiscono a farne la storia. Nel suo decennio e passa di fortuna anche la Sala Tripcovich di Trieste ne ha generati e ospitati tanti di queste micro-presenze virtuali e forse sono ancora annidate là a raccontare l’avventura di questo teatro, nato come architettura dell’effimero e diventato invece straordinario luogo di cultura. Sono ancora lì, per esempio, tra le memorie sospese nel tempo, gli echi di uno degli ultimi concerti diretti da Gianandrea Gavazzeni, l’Orfeo di Gluck diretto da Peter Maag, la Messa in si minore di Bach, l’irresistibile ascesa di Lü Jia (giovanissimo direttore cinese allora esordiente come “stabile” al Verdi), le rivelazioni di José Cura e di Juan Diego Florez, le voci di Rockwell Blake, Sumi Jo, Sara Mingardo, Sonia Ganassi, spettacoli come Tristan und Isolde e La damnation de Faust, i balletti di Ullate e di Roland Petit, il recital di Ute Lemper, la prima italiana di Cabaret. Questo per dire che un teatro non è solo un contenitore, che può essere anche modesto (o un cementizio hangar in stile fascista destinato a stazione delle corriere com’era in origine questa sala), ma è anche il suo “contenuto” con tutta la sua storia civile e con quell’aura di sacralità propria dell’arte. O almeno così per i poveri idealisti che frequentano i luoghi della cultura. La demagogia della politica ha un’ottica diversa. Se è vero che nelle prospettive più concrete indicate a Trieste questa gloriosa e tuttora operosa dependance del Teatro Lirico Giuseppe Verdi potrebbe diventare una...balera a tempo pieno per gli svaghi e sregolatezze di una cultura alternativa che reclama i propri spazi. O, in termini politicamente più corretti, un “luogo di aggregazione giovanile”. Tento, a beneficio del lettore, una sintesi della vicenda.
Agli inizi degli anni novanta il Verdi deve dar corso a improrogabile ristrutturazione. O si trova una sede provvisoria per il teatro (vi lavorano oltre 300 persone) o si chiude. Improponibile la tensostruttura già adottata dalla Fenice. Non lo consentirebbe la minaccia incombente e furiosa della bora. A meno di non collocarla entro un involucro più saldo. Ecco l’idea. E il caso. A un passo dalla stazione ferroviaria, a due dal centro e dallo stesso teatro, servito da adeguato parcheggio, c’è il guscio vuoto della dismessa stazione delle corriere. Entra in gioco a questo punto la sensibilità appassionata dello storico direttore artistico dell’ente, Raffaello de Banfield, non solo musicista e uomo di teatro, ma allora al vertice di un non piccolo impero economico cresciuto sul ceppo familiare della società armatoriale Tripcovich. Il barone assicura la copertura finanziaria per la realizzazione di uno splendido progetto elaborato dall’ingegner Malgrande, responsabile degli allestimenti scenici e oggi alla Scala: una scenografica, affascinante architettura d’interno, un vasto ipogeo Sezessionstil virato in nero con pochi tocchi d’oro (nei finti capitelli) e di rosso. In meno di un anno con uno sforzo che coinvolge tutte le maestranze e le risorse del Verdi, nasce – funzionale e favorita da un’acustica pressoché prodigiosa – la Sala Tripcovich: quasi un miracolo italiano, subito amato dal pubblico della città e della regione, ammirato e additato ad esempio nazionale tanto da meritare al Verdi il riconoscimento del Premio Abbiati. E nasce, con l’impresa, la bella avventura di transizione che permette al Verdi la sopravvivenza e l’attività senza soluzione di continuità fino al ritorno, nel 1997, nell’edifico ottocentesco ristrutturato. Rivelatasi ben più durevole ed efficiente della prevista provvisorietà, la Sala diventa, con l’avallo del Comune, parte integrante della fondazione lirica, ne incrementa l’operosità specie per il tradizionale festival dell’operetta, assicura a orchestra e coro ulteriori spazi di prova, iniziative collaterali e promozionali, rassegne e ospitalità prestigiose. Pochi mesi dopo la morte di Raffaello de Banfield avvenuta l’anno scorso in triste solitudine segnata anche dal crepuscolo delle sue fortune economiche, la Sala prende giustamente il suo nome e il sindaco scopre la targa che ne sancisce la definitiva intitolazione. Definitiva? Pare di no, essendo sempre più ricorrente la possibilità che – accantonata una prima proposta di abbattere la Sala per creare una sorta di megapiazza tra il monumento a Elisabetta d’Austria e il porto vecchio – il Comune sottragga la Sala alla fondazione lirica per destinarla ai centri di trattenimento giovanile, anche nel tentativo di rimuovere gli ormai intollerabili assembramenti notturni intorno alle varie “mescite” della città vecchia e del borgo teresiano. Il rischio c’è, nonostante una moratoria che dovrebbe “tranquillizzare” il Verdi (si fa per dire alla luce degli attuali chiari di luna) fino al 2010. A rinfocolarlo sta contribuendo la mobilitazione giovanile di “facebook”. Mentre fioriscono associazioni, gruppi, circoli che reclamano l’uso e la gestione della Sala. Come un qualsiasi capannone dismesso o un vecchio bocciodromo in disarmo. Il “passato” e il “presente” del Teatro e della Cultura non contano o comunque non valgono il Consenso di una balera “piena di vita”, con i suoi bravi buttafuori là dove un tempo si cantava Mozart, Verdi, Wagner, Puccini.
I piccoli fantasmi musicali rischiano di venir sloggiati come importuni pipistrelli.
Si aggiunga il pericolo che potrebbe insidiare una società culturalmente minoritaria: quello dell’inerzia e della rassegnazione. Perché a tutto ci si abitua.
Non vorrei che in fondo, nella peggiore delle ipotesi, a preoccupare le istituzioni restasse solo una perplessità: che fare della lucida targa di ottone di recente collocazione Sala Raffaello de Banfield ? Qualcuno dovrà pure andare a svitarla. Non fosse altro per evitare l’estrema ingiuria postuma al barone mecenate e musicista.
Trieste, 13 aprile 2009
Gianni Gori