Uno dei sociologi più acuti del nostro tempo, Domenico de Masi, si chiedeva tempo fa, in un saggio pubblicato su un periodico del Corriere della Sera, cosa sia l’Arte nell’attuale società postindustriale. La conclusione della sua analisi è che essa non s’impegna più ad esprimere bellezza, ma a procurare stupore. Citando Piero Adorno, insigne storico dell’arte e scegliendo come riferimento il razionalismo architettonico di Le Corbusier, rileva come essa non cerchi più di essere bella ma di essere originale, di amare la linea curva, il mélange, il pastiche, il patchwork, il riciclaggio, il trash. Il discorso è riferito all’Arte creativa, ma perfettamente si addice a quella dell’intepretazione, al fenomeno corrente sui palcoscenici d’opera di tutto il mondo del cosiddetto “teatro di regia”. L’ultima conferma viene da Salisburgo, ove è andata in scena una attesissima Salome di Richard Strauss.
La Filarmonica di Berlino, l’orchestra più blasonata del mondo, non esegue che musica sinfonica, tutto l’anno. Con una sola eccezione, al Festival di Pasqua della città di Mozart ove, fatti i suoi concerti, si accomoda in buca e suona l’opera, anche se per due sole, preziosissime sere. E per il melomane è occasione senza pari, per le meraviglie di suono che salgono da quello spazio che moltiplica d’incanto la sua nobile funzione di golfo mistico. Karajan s’inventò l’Osterfestspiele per far dispetto al Festival propriamente detto con cui aveva litigato e pretendeva regie tranquille, che non prevalessero sulla musica e per non correre rischi prese a farsele da solo. Impostazione sostanzialmente conservata dopo la sua scomparsa, con la responsabilità musicale dell’Orchestra e dello stesso Festival passata a Claudio Abbado e poi a Simon Rattle. Uno scarno, elegante, efficace “Ring” (regia di Stéphan Braunschweig) ha riempito con le sue “giornate” le ultime quattro edizioni e la testimonianza discografica, ora completata con il Götterdämmerung, conferma al fortunato spettatore che l’ha seguita dal vivo la sensazione che l’esecuzione dei Berliner fosse uno dei massimi raggiungimenti musicali. Ma i nuovi eroi del “teatro di regìa” cingevano d’assedio la manifestazione salisburghese. Lo scorso anno avevano aperto una breccia infilando uno dei loro campioni, Peter Sellars, per “ritualizzare” la bachiana Passione secondo Matteo, e fu bacio gay fra Cristo e Giuda. Ora per Salome l’eroe di turno, il norvegese Stefan Herheim la fa da conquistatore, creando qualcosa assolutamente in linea coi tempi dell’Arte come sopra intesi, uno spettacolo che è insieme mélange, pastiche, patchwork, riciclaggio e trash. La scena è greve di azioni utili ed inutili che si susseguono senza respiro, luci, proiezioni, cantanti che si arrampicano e discendono da un gigantesco cannocchiale semovente che scruta la luna, essa stessa cangiante sino a trasformarsi in una serie di occhi spalancati. E diventa poi passerella come quelle che si accostano agli aerei per imbarcare i passeggeri, o faro di luce o proiettore di cinema, o cannone restando in ciascuna delle occasioni un ostentato simbolo fallico. Salome è modellata su Marilyn Monroe, parrucca biondissima e gonna a plissè che si gonfia e svolazza come nella celebre foto. Solo che lei lo fa allargando le gambe non sul tombino della metropolitana di New York, ma sulla faccia del futuro suicida Narraboth steso in terra e di qualche altro notabile della corte di Erode coinvolto nell’erotico giochino. La quale corte è composta non da Ebrei e Nazareni, come vorrebbero Oscar Wilde e Richard Strauss, ma da Napoleone Bonaparte, Adolf Hitler, Benito Mussolini ed altri meno riconoscibili tiranni della storia. E la danza dei sette veli, vero punto cruciale d’ogni esecuzione dell’opera, è fatta in stile Moulin Rouge da altrettante soubrettes con i loro abiti coloratissimi lanciati in aria sgambando come nei can-can immortalati da Toulouse-Lautrec. Per non dire della testa del Battista, che sorge in dimensioni enormi dal sottopalco, a somiglianza di quei mostri di cartapesta che popolano i “castelli degli spiriti” dei Luna park di terz’ordine. E nelle cui fauci sparirà Salome dopo aver baciato il labbrone dell’orrido simulacro, che ridiscende nel sottopalco insieme al suo pasto. Ci sarebbe molto altro da raccontare di uno spettacolo fatto per stupire e di per sé anche interessante da vedere, ma che schiaccia con prevaricante insolenza i valori musicali, distoglie l’attenzione di chi vorrebbe ascoltare, oltre che vedere. Così come distolto ne fu l’autore di questa nota, che non saprebbe con coscienza riferire sugli esiti musicali dei Berliner e del loro direttore Rattle, benché fossero al primo posto nelle sue attese.
Il discorso però non deve fermarsi all’operato di signor Herheim, che lavora nei maggiori teatri della Mitteleuropa, da Bayreuth (Parsifal, con il sublime preludio arricchito dalla nascita del futuro protagonista mimata in scena da una Herzeleide in carne ed ossa, laddove nell’opera è solo un leitmotiv. E un secondo atto in cui le fanciulle-fiore sono trasformate in degenti di un ospedale) o Berlino (Lohengrin ambientato in un manicomio infestato dai ratti) ma va esteso all’intero fenomeno del “teatro di regia” giunto all’apogeo di un ciclo oltre il quale la curva discendente è irrinunciabile. Nato a Bayreuth a metà del secolo scorso con i fratelli Wieland e Wolfgang Wagner, il modo innovativo di rappresentare il teatro musicale nacque dalla voglia di sfoltire il ciarpame accumulatosi negli anni di immobile naturalismo, di spogliare i personaggi dei loro orpelli, togliere scettri e corone a re e regine, cimieri e trecce bionde a walkirie, lance e spadoni a guerrieri, essenzializzare la parte teatrale sfumando l’unità di tempo e di luogo, con l’obbiettivo finale di restituire alla musica il protagonismo narrativo. Ma lungo il percorso, il ciarpame uscito dalla porta è rientrato dalla finestra in forma diversa, via via sempre più ingombrante e ripetitivo sino a trasformare lo stile asciutto di partenza in una forma neo barocca che ripete la situazione che si era voluto a suo tempo rinnegare e costruisce per sè un protagonismo esasperato che sconvolge ogni equilibrio in danno della musica. La conseguenza è che buona parte del pubblico non ne può più ed i fischi ed i buh! sono in continuo aumento. Forse i tempi sono maturi perché avvenga qualcosa che si ispiri al famoso monito del vecchio Verdi: Per raggiungere il nuovo, si torni all’antico!
Francesco Canessa