Gianni Gori non ha bisogno di presentazioni, tanto è nota la sua attività a 360 gradi in ambito culturale come critico musicale, scrittore, commediografo e molto altro ancora.
OperaClick ha il piacere di ospitare una sua riflessione ai margini della Francesca da Rimini in scena in questi giorni al Teatro Verdi di Trieste.
Francesca da Rimini al Teatro Verdi trent’anni dopo. L’ultima volta fu la Raina. E ancora il pubblico sorbiva volentieri il vino affatturato di Smaragdi, che lo dismagava e gli rendeva intelligibile la poesia come il linguaggio dell’uccellino della foresta per Siegfried.
All’uscita dal teatro, fra i commenti scambiati a fine spettacolo, due giovani frequentatori (anche per astanza paraprofessionale nell’ambito della comunicazione e del teatro) non trattengono l’ilarità di fronte all’enfasi lessicale del Vate. Credo faccia loro l’effetto di certo grottesco involontario che affiora dalla recitazione plateale del cinema muto. Peggio del giullare Gian Figo che dovea venire di Bologna atteso nella casa dei Polentani. Il libretto di Francesca, più o meno quello che la Duse portava in scena, provocando brividi di estetizzante deliquio, suscita la sbeffeggiante ironia che ancora non si risparmia ai poveri “poeti di teatro”. Il dugentismo sonante del poema-libretto fa sorridere quanto il modernariato del Vittoriale o – per dirla con Lele D’Amico – del “bric-à-brac della Capponcina”. Come certi reperti da soffitta di cui si ignora la destinazione d’uso.
L’occasionale, divertita reazione dei due giovani spettatori di fronte ad un classico della drammaturgia poetica e della letteratura del primo novecento è in fondo la spia di una situazione consolidata nel panorama culturale. “D’Annunzio cantato” produce effetti esilaranti più dei “sudate o fochi” non per consapevolezza estetica ma per il suo esatto contrario. Quel linguaggio sembra a qualcuno artifizio ermetico e inestricabile kitschda imbonitore per la semplice ragione che le facoltà culturali del pubblico, la consuetudine a largo orizzonte con l’Opera si sono rattrappite precipitando paurosamente nell’ultimo quarantennio. Con il crollo della curiosità intellettuale, il pubblico dell’Opera, aggrappato ormai (tranne la parte superstite) a una decina di titoli ricorrenti, ha perduto la sintonia con lo stesso artifizio operistico ed il suo lessico. E opere come la Francesca di Zandonai, un tempo pane pressoché quotidiano con il suo “far grande”, la sua oreficeria sinfonica postwagneriana immerso in aure arcaiche e pittoriche di leggenda, sono diventate indecifrabili e di conseguenza rare. I sopratitoli del libretto (come il senso stesso della musica) avrebbero bisogno di note a margine: note che un secolo fa sarebbero state superflue al più modesto loggionista.
Proprio dal coté musicale di Francesca Paolo Isotta ha dettato tempo fa una diagnosi perfetta, attribuendo la disfunzione alla “decaduta capacità di ascolto del pubblico. Fuori da ritmi chiari e riconoscibili, da melodie semplici e diatoniche, è come se sentisse qualcuno che si esprime in una lingua incognita. Viene inoltre meno quella tensione attiva dell' ascolto che c' era quando in un ambiente si decideva di far musica: adesso l' ascolto (che, appunto, ascolto non è, ma mera imbibizione di suoni del mondo esterno in un soggetto passivo) avviene coattivamente, in banca come nella stazione della metropolitana. Onde non meraviglia che un «linguaggio musicale» dal pubblico inteso perfettamente contemporaneo e comprensibile centocinquanta e cent' anni fa appaia oggi «difficile» specie sotto il profilo armonico”.
La parola ed il linguaggio hanno subìto un processo analogo. Il pubblico di cento anni fa non aveva bisogno del Bignami per seguire l’arcadore in gualdana, il dattero fronzuto, le camere gentilesche, le finestre imbertescate. Non era razzaccia sgherra, il pubblico di allora, avvezzo alla magniloquenza del repertorio drammatico dell’ottocento non meno che agli arabeschi del teatro di poesia. Il contatto con la creatività del linguaggio in prosa o in versi era ambìto ed abitudinario. Rinsecchita dalla comunicazione minimalista, dai dialoghi sciamannati delle fiction televisive, dalla sommarietà degli sms, la lingua italiana s’è “sviata”. Come lo sparviero di Francesca. E non si vede strozziere che possa farle ritrovare la strada.
Gianni Gori