Riccardo | Marco Berti |
Renato | Roberto Frontali |
Amelia | Althea Maria Papoulia |
Ulrica | Tichina Vaughn |
Oscar | Laura Giordano |
Silvano | Giuseppe Pizzicato |
Samuel | Carlo Striuli |
Tom | Manrico Signorini |
Un Giudice/un Servo di Amelia | Dax Velenich |
Principe Ribelle | Moussa Sarr |
Anima di Amelia | Michela Cadei |
Uno Schiavo | André Fotso |
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Maestro Concertatore e Direttore | Renato Palumbo |
Regia | Gian Carlo Cobelli |
Scene | Antonio Fiorentino |
Costumi | Alessandro Ciammarughi |
Luci | Mario De Vico |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Assistente alla Regia | Ivo Guerra |
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Civica Orchestra di Fiati |
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"giuseppe Verdi" - Città di Trieste |
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Orchestra, Coro, Corpo di Ballo e Tecnici |
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Del Teatro Lirico “giuseppe Verdi” |
Trieste - Il 17 febbraio del 1859 andava in scena al Teatro Apollo di Roma “Un ballo in maschera”, forse l’opera dalla gestazione più travagliata tra quelle di Guseppe Verdi.
Sono a tutti ben note le traversie che compositore e librettista, il volenteroso Antonio Somma, dovettero affrontare a causa dell’ intransigente censura napoletana prima e di quella, stranamente più accondiscendente, dello Stato Pontificio.
Il dramma di Scribe “Gustave III” era già sta musicato da Auber e per Verdi costituì un ripiego; all’epoca il Maestro accarezzava l’idea di quel “Re Lear” che non scriverà mai, tuttavia il soggetto lo appassionò in corso d’opera, anche perché risveglio il suo spirito combattivo fiaccato da lutti e dai famosi “sedici anni di galera”.
La vicenda, con buona pace della censura papalina, venne trasportata dalla corte di Svezia in America, a Boston, il re Gustavo divenne il Conte Riccardo, governatore di Boston, i nobili congiurati furono trasformati in ricchi coloni, la fattucchiera Ulrica in una maga indigena. Nonostante una compagnia di canto non perfetta l’opera fu un successo, anche maggiore rispetto alle aspettative di Verdi stesso, per un motivo molto semplice, che risiede nella incredibile gamma di umani sentimenti che vi sono rappresentati; “Un ballo in maschera” è sì un opera “politica”, ma lo è in minima parte, lo scontro di potere fa semplicemente da sfondo ad una ricchissima gamma di sentimenti personali ed intimi. L’amore di Riccardo per Amelia, moglie del suo migliore amico, è purissimo e senza speranza, lacerato tra la passione per una donna e la fedeltà agli ideali dell’amicizia e della patria, senz’altra soluzione che la separazione, che avviene in maniera violenta per un improvviso “accecamento” del marito-amico-rivale. L’amore è forte quanto l’odio dei congiurati, che ne sfruttano la parte negativa, vale a dire la gelosia, per raggiungere i loro scopi, manipolando i sentimenti di un uomo ferito. Infine l’amore è sublime nel perdono che Riccardo offre a Renato, riconsegnandogli, morente, la sposa e la libertà.
Nei moderni allestimenti dell’opera si usa indifferentemente la doppia ambientazione, anche se personalmente preferiamo quella svedese, che sicuramente ha una valenza drammaturgica di ben altro peso e non presenta l’artificiosità imposta dalla censura e consolidata dalla tradizione.
Il brutto allestimento del “Verdi” di Trieste, co-prodotto col “Teatro delle Muse” di Ancona, ad opera di Giancarlo Cobelli, qui ripreso da Ivo Guerra, sembra oscillare malamente tra le due versioni e lo si potrebbe definire come una sorta di “Pocahontas a Stoccolma”.
Le atmosfere che il regista sceglie, con la complicità delle scurissime scene di Antonio Fiorentino, sono nordicamente cupe, “guignolescamente” macabre, i personaggi invece vestono come coloni e come indigeni, o come una commistione delle due cose; il palcoscenico, cupamente ingombrato da un albero dalle fronde stecchite, che “vive” grazie a mimi-rami, è popolato da nativi seviziati dalle guardie del Conte che sembrano pretoriani sadici, da carnefici che torturano schiavi, da patiboli e scheletri, da grasse e discinte baldracche forzate a partecipare ad un ballo in maschera che pare un auto-da-fé ed animato da un Oscar che, se nei primi due atti ci è mostrato come una sorta di Gollum saltellante con tanto di bacchetta sadomaso, già alla fine del secondo appare “mascherato” da Lili-Marlene, suscitando urla di raccapriccio da parte di un pubblico già provato.
Non si capisce da quale convinzione, o da quale indicazione di Verdi, Cobelli, con la complicità dello scenografo e del costumista, Alessandro Ciammarughi, tragga l’idea che il Conte di Warwick sia un bieco razzista, schiavista spietato, despota sanguinario, e che Tom e Samuel siano due buzzurri che paiono bracconieri alleati con un onnipresente quanto insignificante “principe indiano”. Non condividiamo nessuna delle scelte registiche, comprendendo appieno il dissenso del pubblico, francamente stanco di simili “prove registiche”.
Luci ed ombre anche sul versante musicale.
Renato Palumbo, onesta bacchetta al suo debutto triestino, offre una lettura correttissima della partitura verdiana, analiticamente perfetta, ritmicamente inappuntabile, ma asettica, refrattaria all’abbandono melodico, sempre trattenuta, quasi timorosa di esprimere il calore che pure dovrebbe scaturire. Si poteva fare di qualcosina di più.
Marco Berti ha dimostrato di avere la parte di Riccardo “under his skin”, passateci l’espressione inglese che in questo caso calza alla perfezione, sia vocalmente che a livello interpretativo.
L’intonazione è sicura, lo squillo in acuto è solarmente chiaro e senza tentennamenti, gli accenti sono quelli giusti, la voce corre generosa e ci consente, una volta tanto di “ascoltare” un’opera e non solo di “vederla” interpretata. Per lui alla fine una meritatissima ovazione cui sentiamo di associarci.
Benissimo anche Roberto Frontali, Renato, che ha cantato con voce perfetta ed autorevole, cui ha unito un’interpretazione di rara intensità; il suo “Eri tu” è stato da brividi ed ha trovato il giusto riscontro.
Meno bene le protagoniste femminili.
Altea-Maria Papoulia, giovane soprano greco-canadese, non accompagna alla sua indubbia avvenenza fisica una voce di pari qualità; il registro medio risulta infatti piuttosto vuoto e gli acuti sono spesso strappati: se a questo si aggiunge una tendenza a calare nei centri e a crescere in alto, il panorama non si presenta dei più rosei. Apprezzabile comunque la sua presenza scenica.
Tichina Vaughn, monumentale mezzosoprano statunitense, ha un voce torrenziale, per altro difettosa nei bassi, per la quale non trova un indirizzo che renda plausibile la sua lettura del personaggio di Ulrica. Vaughn si limita a cantare e tutto finisce lì.
Più che discreto l’Oscar della giovane Laura Giordano, di voce piccola ma gradevole e ben timbrata, la riascolteremo volentieri.
Bene il Tom di Manrico Signorini e il Silvano di Giuseppe Pizzicato, meno bene il Samuel di Carlo Striuli.
Positive le prove di Orchesta e coro
Alla fine applausi convinti per Berti e Frontali, cordiali per gli altri, dissensi vibranti all’indirizzo dell’allestimento.
Alessandro Cammarano