Sulla scia delle recenti interviste realizzate ai lavoratori dei vari teatri italiani, oggi incontriamo qualcuno che lavora dietro le quinte di uno spettacolo nel vero senso della parola. Roberta Ferrari è da più di venti anni uno dei maestri collaboratori del Teatro La Fenice di Venezia e raccontandoci un po’ di sé, ci aiuterà a capire in cosa consista il lavoro di una figura poco nota ai più e cosa il futuro ha in serbo per loro viste le problematiche attuali.
Potresti iniziare spiegandoci un po’ chi è il maestro collaboratore?
È un po’ complesso perché la figura del maestro collaboratore racchiude in sé diversi ruoli. Il primo è quello del maestro suggeritore, a cui purtroppo non viene dato più rilievo né all'estero né in molti teatri italiani. Egli ha un compito difficile e fondamentale, cioè deve anticipare di un movimento il gesto del direttore e suggerire in anticipo il testo ai cantanti. In alcuni teatri esiste ancora una buca nel centro del palcoscenico dove si posiziona durante la recita. La sua importanza è data anche dal fatto che appena c'è un problema d'assieme tra palco e orchestra, col suo contributo si sistema tutto quasi subito, perché spesso i cantanti possono non accorgersi di un problema, son presi da altro, da regie complicate, problemi tecnici momentanei oppure più semplicemente sono in una posizione in palcoscenico che non consente loro di sentire bene i riporti.
Poi c'è il maestro alle luci che deve sapere benissimo cosa succede a livello registico in quanto le prove luci spesso iniziano a ridosso della prima e sono pochissime. Il regista, per esempio, può anche chiedergli aiuto per capire cosa stia succedendo in scena se il suo assistente non è presente. Egli deve dare tutti gli effetti nei momenti precisi, che non sempre sono musicali, ma a volte sono a vista sull’azione di una comparsa, di un cantante o di un attacco del direttore d’orchestra e quindi bisogna stare estremamente attenti. Ad esempio il Maestro Chung ha la tendenza a non aspettare gli applausi e va avanti dato che lui ricerca un fraseggio infinito nella musica. La bellezza della sua direzione è questa: ti siedi, incomincia l’opera e sei rapito da questo fraseggio che inizia dal primo accordo del preludio e finisce con l’ultima nota dell’opera. E in questo caso devi sapere che l’effetto luci va dato subito. La cabina luci nello specifico della Fenice è collocata nella galleria e da quella posizione bisogna vedere cosa succede sul palcoscenico, prestando attenzione anche a movimenti molto piccoli. La difficoltà è maggiore nelle opere contemporanee in cui, se inizi a seguire a vista, perdi in un attimo il filo sullo spartito che non è facilissimo da controllare in quanto si hanno pochi riferimenti musicali.
Un’altra figura è il maestro di palcoscenico che si occupa delle entrate e delle uscite dei singoli, del coro, delle comparse, e dei segnali di movimento, con dei richiami che in Fenice soprannominiamo mici. Tipo quello che si fa per chiamare i gatti. Li usiamo perché sembra che questo suono non corra troppo e quindi non rischi di venir sentito in platea. Un maestro di palcoscenico ha anche la responsabilità di tutti i movimenti macchina, cioè coordina i macchinisti, dà il via ai sipari (a volte controllati dai direttori di scena), ai muri che si spostano, alle americane che scendono, ai cambi scena. In questo caso il maestro di palcoscenico avvisa con dovuto anticipo attrezzisti e macchinisti che si è in prossimità di un cambio scena. Inoltre a volte è necessario stare in contatto con la cabina luci perché il maestro alle luci deve sapere quando il maestro di palcoscenico dà dei via particolari per potersi regolare con gli effetti. Ad esempio se si chiude un muro va aggiunto un effetto luci che sottolinei questo movimento. Tutte queste sono attenzioni che vengono scritte sullo spartito.
Il maestro di sala è invece il pianista che prepara la compagnia, i singoli cantanti e che fa le musicali col direttore. Praticamente è il suo braccio destro, perché poi deve seguire tutte le indicazioni che dà per correggere e sistemare la compagnia anche nel caso in cui il direttore non ci sia. Infatti succede che debba fare le letture solo con l’orchestra oppure vada addirittura in un altro teatro per altre produzioni mentre le prove continuano. Accade sempre più spesso, con questi ritmi frenetici attuali, che il direttore arrivi, faccia due giorni di musicali e poi lasci nelle mani del maestro di sala la responsabilità della preparazione dando delle indicazioni precise da seguire. In più c’è anche un ruolo di sostegno psicologico perché spesso deve supportare un lavoro così difficile come quello del cantante. Sai, ai cantanti basta un mal di gola, un raffreddore, un po’ di stress e si rischia di far saltare la recita. Spesso prima delle rappresentazioni passiamo nei camerini a chiedere ai cantanti se va tutto bene, se vogliono ripassare qualcosa prima di entrare. Nella produzione stessa qualcuno può essere in difficoltà per un ruolo o con quello che il regista chiede loro di fare o sull'interpretazione richiesta che magari non viene condivisa. Nelle opere classiche si deve anche essere in grado di eseguire il continuo ai recitativi su degli strumenti particolari che presentano delle difficoltà diverse a livello esecutivo. Oltre a suonare tante ore in teatro, si è poi è impegnati a casa con la preparazione dello spartito, e in questo caso se si parla di una Serva padrona in un giorno la metti su, ma se devi fare Tannhäuser magari ti ci vogliono tre settimane di studio. Questa è la cosa più faticosa, cioè il dover arrivare preparatissimi perché sei tu che devi insegnare e sapere l’opera meglio di tutti.
Non dimentichiamo che se una fondazione ha anche il corpo di ballo stabile c’è anche il maestro al ballo che suona alle prove.
Per concludere c'è un ulteriore ruolo che è quello del direttore musicale di palcoscenico, che spesso coordina il lavoro di tutti i maestri. Questa figura è il maestro che dirige gli interni, un compito di grande difficoltà in quanto per legge fisica il gesto del direttore va anticipato per poter far sì che il suono arrivi al pubblico perfettamente insieme a quello dell’orchestra. Ci vuole molta esperienza e soprattutto un talento istintivo. Poi dipende ovviamente dalle distanze e dai teatri. Quando ho lavorato in Arena la difficoltà era disumana. Mi ricordo un Rigoletto nel 97/98, dirigeva Nello Santi, in cui abbiamo provato tantissimo l’inizio con la banda per far andare tutti assieme. Ovviamente in Fenice è tutto più semplice perché il teatro è piccolino. Poi è scontato, il direttore è un essere umano e le esecuzioni non sono sempre uguali. La bellezza della musica dal vivo e del teatro dal vivo è proprio questa vita che c’è. E la vita non è sempre uguale. Oggigiorno si segue il direttore dai monitor, una volta invece si faceva un taglio a forma di numero sette nella tela delle quinte. Quando arrivava il momento di dirigere l’interno il direttore musicale sbirciava dal taglio e dirigeva la banda guardando la buca. Il maestro collaboratore racchiude tutte queste figure, però è ovvio che ognuno sia più specializzato in qualcosa. Ora credo che il maestro suggeritore ci sia solo alla Scala, mentre fino a 10 anni fa c’era ancora anche in Fenice.
Tu come sei diventata maestro collaboratore? Che percorso di studi hai fatto per diventarlo?
Io sono nata in una famiglia di musicisti. Mio zio suonava il violino nell’orchestra della Scala, suo figlio pure, mio fratello è anche violinista e mio nonno suonava nei cinema muti quando era giovane. Quando avevo 4/5 anni mio zio ha iniziato a mettermi al pianoforte e ha scoperto che avevo l'orecchio assoluto. In seguito ha parlato coi miei genitori ed è stato deciso che studiassi musica. Così ho iniziato a studiare pianoforte con un’allieva del Conservatorio di Milano, dove sono entrata in seguito nella classe di Bruno Canino.
Quando avevo 14 anni è stato mio zio Giuseppe Ferrari a farmi iniziare a fare i primi concerti accompagnando i cantanti perché organizzava delle serate musicali in Valtellina con alcuni dei comprimari e coristi della Scala che ovviamente conosceva. Da lì ho scoperto che era molto più divertente che suonare da sola e stare dieci ore al giorno chiusa in cameretta a studiare per fare la concertista. Stavo con le persone, era meno alienante. Poi allora trovavo che l’opera fosse più facile rispetto alle sonate di Beethoven o ai concerti di Prokofiev...Quando ho dovuto affrontare partiture come Tannhäuser ho cambiato un po’ idea! (ride) Quindi diciamo che ho deciso fin da subito che dopo il diploma avrei voluto fare questo mestiere.
Finiti gli studi ho ottenuto una borsa di studio alla Scala come maestro collaboratore, ma ci sono rimasta solo due mesi perché il nostro coordinatore ci aveva mandato a fare un’audizione a Verona per renderci conto di cosa volesse dire farne una. Io ci sono andata, ho suonato e poi sono tornata a casa. Dopo due settimane mi chiama il Maestro Fapanni che era il direttore musicale di palcoscenico dell’Arena (era il 1996) per comunicarmi che avevo vinto l’audizione. Io avevo ventidue anni e dato che la borsa di studio alla Scala la potevo fare fino ai trenta, ho deciso di andarci e in caso tornare a Milano in seguito. Invece in Arena ho conosciuto il mio ex marito e quindi mi sono fermata lì.
Dopo di che lui ha partecipato al concorso per primo violino alla Fenice e io l’ho accompagnato al pianoforte. L’allora direttore stabile Isaac Karabtchevsky ha chiesto chi fosse la pianista perché stavano cercando un maestro collaboratore. Così paradossalmente ho iniziato a lavorare prima io in una produzione di Fidelio rispetto a lui che aveva vinto.
Più tardi ho iniziato la mia collaborazione col Festival di Aix-en-Provence, durata per oltre 5 anni. Lì oltre a fare il maestro di sala e il continuo, ho insegnato per due anni all’Académie européenne de musique dove si preparano cantanti e pianisti. Lavoravo sulla dizione, l’interpretazione, il fraseggio, l’intonazione, l’accompagnamento e su come respirare coi cantanti, cose che non per tutti sono istintive.
Si studia moltissimo per diventare e rimanere maestro collaboratore perché non si finisce mai di imparare. Pensa all’immensità del repertorio operistico. Anche un’opera che hai già fatto tante volte la devi riguardare prima di una produzione. Una volta passati 1-2 anni la devi rimettere nelle mani. Questo ovviamente se si vuole suonare bene, perché se si vuole seguire perfettamente un direttore lo spartito bisogna saperlo quasi a memoria.
Avendo potuto lavorare sia in grandi teatri che nelle accademie cosa cambia nel preparare un cantante giovane rispetto a un professionista?
La bellezza di lavorare con dei professionisti esperti, bravi e di talento è che si riesce a fare musica senza fatica. Capisci sempre tutto quello che fanno, riesci a seguirli, perché anche in regia o in una prova tranquilla i grandi artisti ti fanno sempre capire, anche solo accennando, come seguirli e la direzione dei loro fraseggi. In più si ha la soddisfazione di lavorare coi grandi nomi e c’è un motivo se sono diventati grandi nomi: perché sono ottimi musicisti, ottimi cantanti, e il lavoro diventa di tutta un’altra qualità. Detto questo ci sono però dei giovani che saranno dei futuri numeri uno e hanno queste qualità. Lavorare con loro è meraviglioso perché ascoltano tutto quello che tu gli dici. Non che i professionisti non lo facciano. Soprattutto quelli più bravi devo dire, vogliono sempre la tua opinione, sono molto scrupolosi e chiedono di sapere tutto quello che va bene, che va meno bene, se ad esempio un suono è indietro, se è troppo nel naso, se è calante oppure se la dizione non è nitida. Quindi anche il professionista segue i tuoi consigli ma non come i giovani. Il piacere di lavorare con loro è che alla fine di un grande lavoro, ritrovi te stessa nel risultato. Tutto quello che tu hai imparato in 30 anni, loro lo recepiscono e lo fanno proprio. Ad esempio una delle produzioni che hanno dato più soddisfazione è stata La finta giardiniera realizzata ad Aix nel 2012 con i ragazzi dell’accademia. C’erano Sabine Devieilhe, Layla Claire, John Chest, Julian Prégardien, dei cantanti pazzeschi che allora erano a inizio carriera. Io li ho preparati e martellati ore ed ore soprattutto sui recitativi visto che erano tutti non italiani e alla fine hanno fatto uno spettacolo meraviglioso. In quell'occasione ho capito quanto fosse bello lavorare con i giovani: perché sono delle spugne e soprattutto hanno fiducia in te. In quel caso poi risultati si sentivano da un giorno all’altro, perché erano dei fuoriclasse. Quel momento è stato per me un’illuminazione ed è lì che ho deciso che in futuro avrei amato lavorare ancora con dei giovani.
Che cosa fai nello specifico nel tuo lavoro con un cantante?
Nella preparazione di uno spettacolo tu sei a completa disposizione del cantante. Se arriva già preparato e ha già eseguito i ruoli, normalmente non c’è granché da dire, ma ogni tanto gli si può dare qualche consiglio, soprattutto se è il direttore che te lo chiede. Tuttavia dopo tanti anni di lavoro ti è concesso farlo anche di tua iniziativa. Se arriva impreparato o con delle lacune allora ci lavori tutti i giorni, e oltre alle regie e agli assiemi, ti fermi a fare delle sezioni in più per lavorare su possibili carenze, che possono essere problemi di dizione se il cantante è straniero, o magari di intonazione, ritmo e fraseggio.
Visto che tu sei specializzata nel repertorio mozartiano, sono curioso di sapere che cosa cambia nel preparare questo repertorio rispetto ad altri autori.
La difficoltà di Mozart sta nella sua semplicità che infatti è solo apparente (ride). Devi rendere al meglio questa musica meravigliosa, scritta in questo modo così naturale e semplice. Per poterlo fare però bisogna avere una pulizia nella voce, nell’articolazione, nel fraseggio, così come nell’esecuzione al pianoforte. Il risultato deve essere un’esecuzione che non sia troppo verticale, poco fraseggiata e che possa sembrare priva di sostanza e profondità. Bisogna rendere attraverso questa musica così pura il romanticismo che si cela dietro a questo classicismo. Poi soprattutto nel trittico Da Ponte c’è tantissimo teatro e quindi sono opere in cui il cantante deve essere innanzitutto attore e poi cantante. Non che non lo debba essere per cantare Cavaradossi, per carità, certo è che è un repertorio diverso. Ma anche Rossini è un po’ così. C’è molta teatralità in questo repertorio e ci sono delle regole precise che il compositore ha seguito come possono essere ad esempio le tre unità aristoteliche. È un teatro che si deve ancora sviluppare ma è legatissimo alla tragedia greca e bisogna tenerne conto.
Ha qualche caratteristica specifica?
Per esempio in Mozart ci sono delle tonalità che lui sceglieva per esprimere cose particolari. La tonalità dell’amore è il la maggiore, infatti Là ci darem la mano, Ah, perdona il primo affetto, il duetto Fiordiligi-Ferrando sono in la maggiore. Re minore è per il dolore tipo la Regina della Notte. Sol maggiore descrive un personaggio allegro come può essere Pagageno. Sapendo queste cose si può migliorare l'interpretazione. Poi una regola universale che vale per tutto il repertorio operistico è che tutto parte dalla parola. Questo ovviamente vale anche in Mozart e non solo nei recitativi, ma anche nei pezzi cantati. Poi spesso fa cantare i personaggi negli ensamble in omoritmia e se lì la dizione non è chiara il risultato non funziona. Spesso c’è lo stesso ritmo anche in orchestra e quindi il meccanismo deve essere ancora più preciso che in un Rossini.
Nel corso della tua carriera hai avuto modo di lavorare a stretto contatto con grandi registi, direttori e artisti. Cosa hai imparato da loro e quale è il ricordo più bello?
In realtà si impara da tutti. E, come diceva la Callas, si impara soprattutto cosa non bisogna fare. Normalmente da un direttore d’orchestra si impara ma succede anche il contrario. Diciamo che i direttori che mi hanno coinvolto di più per il loro talento, musicalità e bravura sono stati ad esempio Angelo Campori con cui ho lavorato in Arena nel ‘97 per l'ultima Butterfly di Raina Kabaivanska. Io ero la pianista ed è stato l’antepiano più bello della mia vita che è iniziato alle nove di sera ed è finito alle tre di notte perché eravamo interrotti di continuo dalla pioggia. Il Maestro Campori non comunicava se non con le mani e semplicemente muovendole lui mi parlava. E il ricordo di questo antepiano mi è rimasto veramente nel cuore. È stato un imprinting incredibile per me, con la musica meravigliosa di Puccini come protagonista. Sempre in Arena ho imparato molto da Nello Santi, Antonello Manacorda è stato un punto di riferimento nel repertorio mozartiano, mentre da Ottavio Dantone ho imparato come eseguire correttamente un continuo in un’opera classica. Poi come non nominarti Myung-Whun Chung: la sensazione che avuto con lui la prima volta che mi ha diretto è stata quella di essere radiografata. È come se si fosse messo in contatto con la mia testa e la mia anima e mi avesse letto. Una sensazione stranissima, che hanno provato anche i miei colleghi. Per un musicista è bellissimo lavorare così.
Come registi adoro Pierluigi Pizzi, trovo le sue scenografie e regie di una raffinatezza e di una classe assoluta. Poi Damiano Michieletto che ha fatto gli spettacoli più belli visti alla Fenice negli ultimi dieci anni. Un altro che mi ha colpito profondamente è stato Dimitri Tcherniakov con cui ho lavorato ad Aix per il Don Giovanni. Lui è una persona incredibile perché ha un talento che si sviluppa sotto molti aspetti. In particolare era stupefacente quando faceva gli esempi ai cantanti: diceva Masetto tu devi tenere la pistola e devi fare così, e lì non c’era più Dimitri, ma c’era Masetto. Dopo due minuti andava da Donna Anna e le diceva tu sei ubriaca devi fare così, prendeva la bottiglia si buttava per terra e c’era Donna Anna. Da registi così ho imparato che devi avere dentro di te una concezione dello spettacolo dall’inizio alla fine e capirlo dall’inizio alla fine. Una specie di fraseggio infinito alla Chung anche nella regia (ride).
Per quanto riguarda i cantanti, avendo iniziato tanti anni fa, ho collaborato con artisti che sono rimasti nella storia. Come ho detto prima, ho preso parte all’ultima produzione di Madama Butterfly di Raina Kabaivanska. Cosa mi ha colpito di lei? Quell’anno erano in cartellone tantissime recite di quell’opera. Io andavo nella buca del suggeritore tutte le sere e piangevo ogni volta che cantava Tu, tu piccolo Iddio... Lei proprio diventava Cio-Cio-san. Poi sempre in Arena ho lavorato con Luciana Serra, Enzo Dara, Leo Nucci in Rigoletto...Sono troppi i nomi, neanche li ricordo tutti. Ad Aix ho lavorato con Natalie Dessay e anche in quel caso l'impatto è stato incredibile. Vedere come interpretava Violetta era sconvolgente. Lei in prova non cantava, diceva il testo sottovoce ma è riuscita a commuovermi lo stesso. Sempre per il festival ho collaborato con Lawrence Brownlee e Olga Peretyatko nel Turco in Italia assieme a Pietro Spagnoli e Alessandro Corbelli. Vederli lavorare insieme… Se un giovane mi chiedesse come fare dei recitativi di Rossini gli direi di ascoltare loro due. Anche alla Fenice ho preparato spettacoli con dei cantanti favolosi. Non posso non citarti Alex Esposito che per me è un mito, Omar Montanari che ha il teatro nel sangue, poi Marina Comparato, Francesco Meli, Serena Gamberoni o Carmela Remigio. Fare Don Giovanni con lei che è una delle più grandi Donne Anna della storia è stata un’esperienza assolutamente gratificante. Poi ci sono anche delle cantanti giovani già in carriera che amo molto come Francesca Dotto, Claudia Pavone e Chiara Amarù.
Visto il momento in cui ci troviamo non posso non chiederti qual è la situazione attuale dei maestri collaboratori.
Ovviamente siamo tutti preoccupati. Come tutti i cittadini la preoccupazione maggiore è di non prenderci questo virus che non riusciamo ancora a comprendere, prevenire e curare. La peculiarità dei maestri della Fenice è però di essere una squadra molto unita, siamo come una piccola famiglia. Siamo sempre in contatto e siamo soprattutto ottimisti. Sappiamo che il teatro senza di noi non può ripartire perché siamo figure fondamentali. Ovviamente non parlo del teatro in streaming, ma parlo del teatro vero, quello con il pubblico. Certo, se faremo un’opera da mettere poi sullo streaming si collaborerà. Noi siamo abbastanza sereni anche perché spesso suoniamo in orchestra, quindi se ci sarà qualche proposta per realizzare concerti siamo disponibili perché in fondo siamo dei pianisti. Possiamo uscire dalla nostra veste di maestri collaboratori e tornare pianisti. Quando ci saranno indicazioni dal Ministero, saremo pronti per qualsiasi proposta ci arriverà dalla direzione, perché in fondo senza spirito collaborativo non si può essere un maestro collaboratore.
Andrea Bomben