Nel luglio 2015 eravamo a Busseto per assistere alla finale della 53ima edizione del Concorso Voci Verdiane e tra i finalisti ci colpì in maniera totalmente positiva un artista dal timbro da autentico basso, con un volume vocale generoso, l'emissione morbita e la tecnica sicura: Mariano Buccino. Negli anni successivi abbiamo avuto parecchie occasioni per apprezzare sul palcoscenico il basso napoletano; in particolar modo lo ricordiamo autorevole Raimondo nella Lucia di Lammermoor a Genova, truce Sparafucile nel Rigoletto al Petruzzelli di Bari e ottimo Ferrando nel Trovatore ancora una volta a Genova. Il suo è un percorso artistico in costante evoluzione e, meritatamente, senza flessioni. Tra qualche giorno si calerà nei panni del Commendatore nel Don Giovanni che aprirà la stagione del Teatro di Sassari e nuovi interessanti ruoli lo aspettano per la prima volta nei mesi successivi.
Buongiorno Mariano, il Concorso Voci Verdiane ti ha portato bene, in realtà avevi già debuttato in alcuni ruoli ancor prima della finale bussetana: quando per la precisione?
Prima del Concorso Voci Verdiane ho vinto il Concorso Aslico che mi ha permesso di debuttare nel mio ruolo fortunato, quello del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart. Era una produzione molto importante, firmata da Graham Vick. Stare accanto a lui mi ha insegnato a dare al tempo il giusto valore in cui la riflessione deve farla da padrona. Successivamente ho fatto parte del progetto giovani del teatro di Piacenza dove ho avuto la fortuna di lavorare accanto a Leo Nucci sia in qualità di regista sin in qualità di collega di palcoscenico. Lavorare accanto ad un gigante di quel calibro ti fa sentire davvero piccolo, ma ne ho approfittato per rubare il più possibile dal punto di vista scenico, di fraseggio e tecnico.
Come ti sei avvicinato alla musica e al canto ma soprattutto da cosa nasce la tua passione per l'opera lirica?
Quando ero piccolo, sei o sette anni, mia nonna paterna mi insegnò i testi e i motivi delle canzoni classiche napoletane e io la imitavo. La voce che ne usciva però, con stupore della mia famiglia, non era una voce “normale” bensì una voce bianca con estrema facilità verso l’acuto. Venni soprannominato il pavarottino. Sinceramente, a quell’età, non sapevo neppure chi fosse Pavarotti. In seguito alla mia prima esibizione in casa mi fu regalata una musicassetta di arie d’opera e da camera cantate da Luciano Pavarotti. Ne fui così rapito che iniziai ad imitarlo.
L’avvicinamento all’opera è avvenuto in questo modo, ma più propriamente fu quando mi esibii in pubblico per la prima volta con l’aria della Regina della Notte tratta dal Flauto Magico di Mozart. Ero piccolo, avevo all’incirca nove anni, e fui portato da un direttore di coro molto importante a Napoli, si chiamava Joseph Grima. Appena sentì la mia voce rudimentalmente impostata, ne fu tale la gioia che volle creare un coro di voci bianche. All’interno del coro ho potuto maturare e affinare l’intonazione e, dopo le lezioni di coro, mi venivano riservate delle lezioni private di canto che, in pochi mesi, mi fecero cantare da sopranista. Mi piaceva il contatto con il pubblico, mi piaceva che le persone sorridessero e si emozionassero nel sentirmi cantare. Fu in quel momento che capii che avrei dedicato la mia vita a questo.
La tua famiglia ha assecondato il tuo desiderio di fare il cantante?
La mia è una famiglia semplice. Mio padre era un ex ferroviere e mia madre è una casalinga. Hanno fatto sempre in modo di non farci mancare nulla e di permettere a noi figli di esaudire i nostri sogni.
Mio padre è stato l’artefice di tutto. Lui ha sentito per la prima volta, percorrendo via San Sebastiano (la via dei musicisti e degli strumenti musicali a Napoli) il coro del maestro Grima e fu sempre lui a portarmi dal maestro. Fu lui che mi permise di studiare il pianoforte all’età di nove anni e la composizione dall’età di tredici anni. E fu sempre lui che, una volta terminata la muta vocale (intorno ai diciotto anni) mi chiese che volessi fare da grande. Quando gli dissi che avrei voluto fare il cantante lirico, senza pensarci più di tanto, mi disse di contattare la più importante e brava insegnante di canto perché voleva sapere da lei se fosse il caso di investire tempo e denaro o meno. In men che non si dica trovai il numero di Margaret Baker Genovesi e, insieme a mio padre, andammo da lei a Roma. La voce ovviamente non era quella di oggi, ma lei intravide qualcosa. Mi disse che la voce era una “voce importante” e che era il caso di investire su di essa perché i bassi erano merce rara.
La tua è una voce inequivocabilmente da basso. É sempre stata così sin dai tuoi primi approcci allo studio del canto, oppure hai iniziato come baritono e si è scurita successivamente?
Come ho già detto, canto da quando avevo sette anni con un piccolo stop dai 13 ai 18 per la muta vocale. Successivamente a questo periodo, siccome come insegna Tomatis: “… ognuno è capace di emettere solo i suoni che riesce a sentire …”, gli acuti non mi hanno mai fatto paura. Ho provato a fare il tenore, ma non reggevo la tessitura pur riuscendo ad emettere con facilità acuti impervi. Per molti anni ho provato a fare il baritono, ma sentivo che qualcosa non funzionava. La voce non era omogenea e mi sentivo come un violoncello che dovesse eseguire i brani di una viola. A ventisei anni, dopo aver cambiato tantissimi insegnanti, decisi che avrei fatto il basso e la voce iniziò ad uniformarsi da sola. Da quel momento, dopo solo sei mesi di studio, vinsi l’Aslico per il ruolo del Commendatore e da lì non mi sono più fermato.
Hai dovuto lavorare molto per trovare la sicurezza vocale che ti ha consentito di approcciarti all'attività professionale?
Ho dovuto e sto lavorando moltissimo in quanto lo studio “matto e disperatissimo” continuerà fino a quando non smetterò di cantare e forse neppure. Credo che continuerò a vocalizzare e a ripetere all’infinito la nota o la frase che non mi piace fino alla fine dei miei giorni. Amo essere un perfezionista e non sono mai contento di nulla.
Due sono stati gli incontri lungo il mio cammino di artista e di studente che mi hanno rivoluzionato la vita. Il primo con Michela Sburlati che mi ha spinto a vedere lo studio vocale sotto un profilo prettamente anatomico-funzionale. Il secondo con Donata d’Annunzio Lombardi – con cui mi perfeziono attualmente – è stato determinante. Tramite il suo Metodo DaltroCanto, mi ha letteralmente rivoluzionato il modo di approcciare al canto e all’utilizzo della voce, in quanto la sua didattica mi permette di affrontare lo studio di qualsiasi ruolo con estrema tranquillità.
Prossimamente debutterai in Silva nell'Ernani e in Oroveso, capo dei druidi e padre di Norma. Due ruoli vocalmente stupendi che possono vantare d'essere stati affrontati da tutti i più grandi bassi della storia. Cosa provi al pensiero di calarti nei panni di questi due personaggi?
La prima risposta che mi sentirei di dare è che mi tremano le gambe. Ma ho un piccolo segreto in merito: pur essendo un fan sfegatato dei più grandi bassi della storia dell’opera, cerco sempre di non fare paragoni, anche perché perderei in partenza. Questa piccola astuzia mi aiuta ad affrontare lo studio di questo tipo di ruolo con più calma. Silva per me rappresenta una grande sfida perché è un tri-debutto: ruolo, paese (lo debutterò infatti in America) e teatro. È un ruolo, come ben sai, molto difficile dal punto di vista vocale e, per la prima volta, mi ritroverò a fare il cattivo che non è nella mia indole. Ci sarà da divertirsi!
In merito ad Oroveso invece è un ruolo di grande responsabilità perché interviene sempre in scene molto intense. Mi tranquillizza però il fatto che lo debutterò nella mia amata Genova dove la bellissima acustica del teatro è stata sempre dalla mia parte.
Qual è il metodo che utilizzi per preparare un nuovo ruolo?
Prima di tutto leggo il libretto e cerco di effettuare un’analisi principalmente sul tipo di linguaggio usato dal mio personaggio. Credo sia fondamentale comprendere il mio personaggio che registro linguistico utilizzi. Successivamente mi avvicino allo spartito e inizio a studiarlo dal punto di vista ritmico e d’intonazione. Contemporaneamente cerco di raccogliere più materiale possibile sulle fonti del libretto e di ciò che autorevoli musicologi hanno scritto sull’opera e sul mio personaggio così da paragonare la mia idea alla loro. Poi inizia lo studio prettamente tecnico dove curo ciò che di più ostico dal punto di vista vocale è presente nei vari numeri musicali. Sottopongo il tutto alla mia guida e solo successivamente mi lascio forgiare dal pianista. Non mi piacciono intense ore di prove con il pianista, ma amo riflettere e riascoltarmi così da comprendere come avrei potuto affrontare quel o quell’altro passaggio. Sono una persona più mentale che pratica. Ho bisogno di sapere che tutti i tasselli siano al posto giusto prima di poter mostrare le mie carte. Mi stanco difficilmente di cercare il suono, il colore e il porgere migliore affinché l’idea che ho del mio personaggio possa venir fuori.
Dopo Silva e Oroveso quale ruolo ti renderebbe davvero felice?
Da un basso ci si aspetterebbe di sentirsi dire che il ruolo preferito sia Filippo II nel Don Carlo. Sicuramente è un ruolo che mi affascina, ma che sento ancora lontano da me forse perché è ancora troppo vivo il paragone con Cesare Siepi che, mio malgrado, non riesco ancora ad evitare. Mi piacerebbe invece debuttare Fiesco nel Simon Boccanegra. Di indole sono una persona molto protettiva e che cerca sempre di comportarsi con giustizia. Tutte qualità che rivedo in questo bellissimo personaggio.
Per crescere artisticamente rietieni che faccia bene ascoltare i grandi artisti del passato?
Credo sia fondamentale ascoltare le grandi voci del passato. È importantissimo imparare come questi personaggi solevano fraseggiare e come porgevano la frase. Credo che per essere moderni si debba sempre e comunque guardare al passato.
Hai qualche riferimento tra i miti che hanno dato lustro alla tua corda vocale?
Ti basti solo sapere che i miei amici mi chiamano Giaiepi in quanto i miei due bassi di riferimento sono Cesare Siepi e Bonaldo Giaiotti. Del primo ammiro l’indiscussa bellezza vocale e la nobiltà del canto. Del secondo l’indissolubile robustezza del mezzo vocale e l’intelligenza con cui lo gestisce. Non ti nascondo che quando ho un dubbio su una frase o su di un passaggio, sia dal punto di vista tecnico che interpretativo faccio sempre riferimento a loro.
Recentemente abbiamo pubblicato un interessante speciale a Ezio Pinza nel 130° anniversario della nascita. Ascoltando alcune registrazioni del grande basso ravennate si rimane immediatamente colpiti dalla perfetta dizione e dall'apparente naturalezza dell'emissione senza nessuna volontà di scurimento o tentativo di artefazione. Cosa pensi di questo tuo collega e di quel modo di cantare?
Ezio Pinza è uno degli indiscussi maestri del belcanto. Aveva un modo di cantare apparentemente facile. L’ho sempre immaginato come una persona molto intelligente che sapesse badare all’economia del suo mezzo vocale. Oggi purtroppo si è abituati a pensare alla voce del basso come una voce solo scura e che riesce ad emettere un acuto solo in maniera forzata. Credo che il tutto dipenda dalla perdita di chi ha ascoltato dal vivo le voci di una volta. Oggi si bada troppo alla forma e all’idea di ciò che dovrebbe essere un basso semplicemente perché il paragone viene fatto su ciò che statisticamente è più preminente. Se una voce scura ha facilità in acuto subito viene etichettata come baritono, dimenticando forse che i repertori sono vari. Tutte le voci devono squillare, tutte le voci devono saper declamare, legare e colorare. Ezio Pinza è la dimostrazione, dal canto mio, di ciò che è un vero basso.
Tra pochi giorni ti vestirai da Commendatore nel Don Giovanni che andrà in scena a Sassari. Come ti trovi a cantare questo ruolo e cosa puoi anticiparci di questa produzione?
Il ruolo del Commendatore è il mio ruolo fortunato. Mi fu consigliato di studiarlo da Anna Vandi durante l’Opera Studio all’Accademia di Santa Cecilia. Non avrei mai creduto che potesse piacermi così tanto interpretarlo. Anche se non è un ruolo principale credo che lo terrò per sempre nel mio repertorio perché mi piace molto cantarlo. Ho avuto la fortuna di iniziare la mia carriera con questo ruolo e di portarlo in giro per il mondo.
La produzione di Sassari ha una regia ibrida tra la tradizione e la modernità. Il solo a vestire abiti settecenteschi è Don Giovanni che viene rispedito dall’inferno per rivivere tutte le sue malefatte. Tutti gli altri personaggi sono anime in cerca di espiazione.
In merito all'eterna diatriba inerente la regia nel teatro lirico cosa ne pensi?
Sono dell’opinione che bisogna rispettare i ruoli, ma ancor di più l’autore. Non bisogna mai dimenticare, a parer mio, che noi ci esibiamo grazie all’opera di qualcuno che ha impiegato mesi, se non anni, per comporre ciò che noi portiamo in scena. La mia idea è quella quindi di non snaturare ciò che è stato scritto. Ciò non significa che sono contrario alle regie moderne. Esistono regie di tradizione brutte come esistono regie moderne belle e viceversa. Tutto credo stia nell’intelligenza delle persone e credo che la questione fondamentale sia da rinvenirsi nella capacità di collaborazione tra le varie figure.
Se non andiamo errati, poco prima della pandemia, hai pubblico un libro intitolato “Il gigante basso” dedicato ad Ignazio Marini, celebre basso verdiano e quasi coetaneo del Cigno di Busseto. Come ti è nata l’idea di scrivere questo interessante libro?
Per un po’ di tempo ho studiato musicologia alla Sapienza perché sono stato sempre appassionato di storia del teatro musicale. Ho allora pensato di scrivere un libro che potesse unire le mie due passioni ed è così nato Il gigante basso edito dalla casa musicale napoletana Simeoli. Devi sapere che, prima della totale maturazione della mia voce, c’è stato sempre qualcuno che diceva che fossi baritono per la mia facilità all’acuto. Ho allora voluto in qualche modo dare prova, non solo vocalmente parlando ma anche storicamente, che si sbagliasse. Ho scritto allora questo libro che inizia con un articolo di un illustre critico dell’Ottocento dove asserisce che molti davano del “non basso” a Lablache e che questo accadeva perché sicuramente erano carenti di udito. Il mio libro nasce da questa mia esigenza e ho percorso con esso, approfittando della vita di Ignazio Marini per cui Verdi ha scritto Oberto ed Attila, l’evoluzione della voce del basso. Un percorso che mi ha davvero emozionato perché è una vera e propria rivendicazione di una propria identità vocale.
Se non avessi deciso di intraprendere la carriera di artista lirico cosa ti sarebbe piaciuto fare?
Mi sarebbe piaciuto tantissimo insegnare nelle scuole. Passione che in un certo qual modo sto riuscendo a mantenere in quanto, nei rari periodi di riposo dal palcoscenico, sono solito dare lezioni di canto. Mi piace davvero tanto insegnare perché mi piace rendere felici le persone. Vedere che i loro sogni si realizzano grazie a te è per me fonte di orgoglio.
Quando hai del tempo libero cosa ami fare?
Mi piace fare lunghe passeggiate. Guardare il mare mi rilassa moltissimo e non ti nascondo che le idee più geniali per affrontare un passaggio ostico mi sono venute guardando il mare. Mi piace anche tanto scrivere e fare attività di ricerca. Sto lavorando infatti su numerosi testi sia di narrativa sia di saggistica musicologica.
Sei sportivo?
Pratico con regolarità lo yoga che mi aiuta a rilassare e ad esercitare la respirazione tramite il pranayama. Credo che stare bene con sé stessi sia di fondamentale importanza soprattutto se si vuole essere veri su di un palcoscenico.
Grazie per la bella chiacchierata e in bocca al lupo per i tuoi futuri impegni
Viva il lupo e un saluto a tutti i lettori di OperaClick.
Danilo Boaretto