L’emozione di trovarsi con un microfono in mano di fronte al grande tenore catalano Jaume Aragall è qualcosa che non dimenticheremo tanto facilmente: il tempo a disposizione è troppo poco e la nostra ammirazione troppo grande. Come già era accaduto per Teresa Berganza, l’occasione d’incontro ci viene offerta dalla seconda edizione del Concorso Internazionale di Canto Renata Tebaldi di San Marino. Jaume, Jaime, o Giacomo che dir si voglia, è qui in qualità di membro della commissione giudicatrice, eppure il suo aspetto ed il suo modo di parlare non hanno proprio nulla del “giudice”. Sono tutt’altro che intimidatori, tutt’altro che austeri. Ogni parola è pronunciata con gentilezza, ogni gesto esprime modestia. Siamo completamente nostro agio e rapidamente ci pervade un profondo senso di tranquillità.
Maestro Aragall posso rubarle dieci minuti prima che riprendano le audizioni pomeridiane?
«Ho paura che dieci minuti siano troppi. Non per me, sia chiaro, io starei volentieri a parlare qui con te tutto il pomeriggio, ma temo che gli altri componenti della giuria mi aspettino. Ma se cominciamo subito, vedrai che qualcosa riusciamo a combinare…».
Non perdo tempo allora… Trovarsi di fronte a Jaume Aragall significa forse trovarsi di fronte alla “più bella voce” del secolo scorso, come qualcuno ha detto. Ma quanto conta nella carriera di un cantante la qualità del timbro? E quanto la tecnica?
«Hai citato l’elogio prezioso di un caro amico, che mi ha sempre riempito d’orgoglio ed al quale sarò eternamente grato per questo, ma che non può certo essere preso alla lettera... La qualità della voce è un dono di Dio, questo è indiscutibile. Tuttavia ci sono altre vie per raggiungere ottimi livelli espressivi. La tecnica? Non solo. E’ l’istinto la cosa più importante in questo mestiere, l’unico vero elemento imprescindibile che permette all’interprete di trovare il giusto equilibrio tra musicalità, stile e cuore. Per cuore intendo il modo di esprimere emozioni attraverso il canto: se leggo una bellissima poesia come leggo il giornale, recito parole prive di significato. Se invece cerco di rendere attraverso la mia lettura le sensazioni e le emozioni che evoca il testo poetico, anche i versi più scadenti possono diventare straordinari. Una voce non troppo bella, se ben guidata può raggiungere traguardi inimmaginabili.».
Una voce “bella” di natura può cantare di tutto? Ha dei rimpianti riguardo al repertorio? Magari un ruolo che avrebbe voluto interpretare e che non ha mai affrontato…
«Se si vuole che una voce si conservi “bella” nel tempo è assolutamente necessario non cantare di tutto! Nella carriera di tutti gli interpreti ci sono ruoli che si sarebbero voluti affrontare, per i quali si è perduta l’occasione. Nel mio caso ad esempio Andrea Chènier, o Pagliacci e Cavalleria, che ho solo inciso e mai cantato in teatro. Ma c’è il rovescio della medaglia. Alcuni artisti vogliono conquistare repertori che non appartengono alla propria vocalità. Questo è un grande pericolo per la salute vocale. La scelta dei ruoli è molto importante, anzi fondamentale. Se un tenore possiede uno strumento elastico come un chewing-gum che si adatta a tutto, deve stare molto attento. E quanto più è flessibile il chewing-gum, quanto più il rischio è alto. Ora ti dirò una frase che spero possa essere una risposta esaustiva alla tua domanda: ci sono grandissimi cantanti che hanno costruito la propria carriera con solo dieci opere in repertorio.».
E’ nel 1963 che questa voce di straordinaria bellezza si rivela al mondo grazie al conseguimento di un prestigioso riconoscimento a livello internazionale: il primo premio del Concorso Voci Verdiane di Busseto. In virtù di quest’esperienza, cosa può rappresentare per un giovane cantante di oggi la partecipazione ad un concorso di tale importanza?
«Io credo che partecipare ad una competizione lirica sia un’esperienza estremamente significativa per qualunque cantante. In Spagna esiste un concorso che porta il mio nome, e del quale vado molto fiero. Vi prendono parte sia giovani debuttanti, sia artisti in carriera. Si tratta in entrambi i casi di seri professionisti che hanno avuto il coraggio di compiere una scelta oggi più che mai difficile: guadagnarsi da vivere attraverso la voce. Per noi organizzatori è una grande soddisfazione. Vincere non è importante, anzi spesso non vuol dire un bel niente, né risulta necessario al fine di costruire una carriera. Sono tanti i grandi cantanti del passato che in più di un’occasione si sono qualificati in posizioni irrilevanti in graduatoria. Tra questi io stesso, prima di partecipare al concorso di Busseto. Classificarsi tra i primi non è cosa di grande valore in sé: ci sono persone che pur vincendo ripetutamente non hanno combinato nulla nella vita, come al contrario altre che malgrado non abbiano mai vinto una competizione hanno saputo fare tesoro dell’esperienza fatta, trasformandola in qualcosa di molto importante per il proprio futuro.».
Mi piacerebbe a questo punto rivolgerle la stessa domanda che ho posto poc’anzi alla collega Teresa Berganza riguardo al suo ruolo all’interno del Concorso Tebaldi. Quali sono secondo lei le maggiori difficoltà che un membro della giuria può incontrare nello svolgere il proprio compito?
«Le difficoltà sono molteplici. La prima riguarda certamente l’effettiva possibilità per noi giurati di valutare con assoluta correttezza le qualità dei tanti artisti concorrenti in un periodo di tempo piuttosto limitato ed attraverso una gamma di ascolti necessariamente contenuta. La seconda riguarda la divergenza di opinioni tra i vari membri della commissione, ciascuno dei quali ovviamente sente la voce con il proprio orecchio ed in maniera diversa. Solo quando l’esito del nostro giudizio procura un effettivo giovamento a qualcuno degli interpreti in gara, possiamo ritenerci soddisfatti ed affermare che il nostro lavoro è servito a qualcosa.».
Ha conosciuto personalmente Renata Tebaldi?
«Se sono qui ora lo devo solo al rispetto, all’ammirazione ed alla devozione che provo nei confronti di una grande interprete come Renata Tebaldi, un’artista per me assolutamente unica. Ho avuto l’onore di conoscerla di persona in occasione del mio debutto al Metropolitan nel 1968, era la prima volta che la incontravo dal vivo ed ero poco più che un ragazzo. In passato avevo fatto un’immensa scorpacciata di ascolti delle sue incisioni, ma ciò che più mi colpì in quel momento furono la grande umanità e la gentilezza che la sua persona esprimeva.».
La nostra chiacchierata si avvia al termine, ma prima di concludere vorrei chiederle di raccontarci qualcosa del suo rapporto con un paio di illustri colleghi e delle occasioni artistiche che l’hanno vista protagonista assieme a loro. Cominciamo con Luciano Pavarotti e con “I Capuleti e i Montecchi” alla Scala nel 1966…
«Apprezzo molto questa domanda, perché mi dà modo di esprimere i miei sentimenti nei confronti di un caro amico recentemente scomparso. Non eravamo soltanto colleghi, non abbiamo soltanto “cantato insieme”. Certo “I Capuleti e i Montecchi” rappresentarono forse qualcosa di unico, la prima occasione in tempi moderni di vedere due tenori protagonisti impegnati nella stessa opera. L’idea vincente fu del maestro Abbado. Ma l’amicizia che mi legava a Pavarotti non nacque in quel frangente. Ci conoscevamo già da alcuni anni, da quando debuttai alla Fenice ed alla Scala nel 63. Ricordo momenti indimenticabili della mia vita trascorsi in sua compagnia, quasi quarant’anni girando il mondo negli stessi alberghi, negli stessi ristoranti... Ci è spesso capitato di pranzare o cenare insieme, a volte cucinava lui, a volte io, altre volte Placido, altre ancora Josè… (riflette per un’istante) No, in verità Carreras non ha mai preparato nulla in cucina… (ride) Spesso giocavamo a tennis… Chi avrebbe mai potuto immaginare che un uomo della stazza di Luciano potesse essere così agile sul campo da gioco?! A San Francisco era sempre sotto rete, mentre io rimanevo dietro e mi stancavo in fretta. Era pieno di risorse! Ho sempre considerato la nostra amicizia come qualcosa di fraterno: alcuni rapporti umani nella vita professionale di un artista possono acquisire un’importanza pari a quella degli affetti familiari. Pavarotti per me era come un fratello. Ha fatto molti elogi di me, non ultimo quello esagerato che tu stesso hai ricordato in una domanda precedente. Ma lui sa che anch’io lo stimavo molto. Siamo rimasti in contatto fino all’ultimo, per telefono. Mi sono recato al suo funerale… Nessuno se ne è accorto perché nonostante avessi un posto ufficiale tra Carla Fracci e Franco Zeffirelli ho preferito rimanere in disparte in un angolo. Non mi interessava essere ripreso dalle telecamere, volevo solo che sentisse che in quel momento ero lì accanto a lui.».
Motivo di mia personale ammirazione nei suoi confronti è il contributo dato alla riscoperta di un capolavoro del repertorio francese dalle colossali proporzioni, quell’ “Esclarmonde” di Jules Massenet che portò per la prima volta sulle scene insieme a Joan Sutherland a San Francisco nel 1974…
«Ah, fu semplicemente grandioso! Ricordo con entusiasmo la spettacolare regia di Beni Montresor! All’epoca San Francisco era decisamente all’avanguardia, persino più di New York. Con Joan Sutherland ho tuttora dei rapporti magnifici: a volte passiamo anni senza incontrarci, ma quando mi capita di rivederla è come se non ci fossimo mai salutati, come se fossero trascorsi solo due giorni. Portammo lo spettacolo anche al Metropolitan nel 1976 e realizzammo l’incisione. Sono molto grato ai coniugi Bonynge per avermi dato la possibilità di riportare alla luce una partitura di quel calibro. Lavorare con Joan Sutherland fu estremamente rassicurante: ogni paura, ogni timidezza svaniva, come se accanto a me avessi avuto una mamma.».
I dieci minuti che ci aveva promesso sono ormai diventati venti. Salutandola e ringraziandola per la gentilezza che ci ha dimostrato le chiedo di rivolgere un pensiero a tutti coloro che leggeranno quest’intervista.
«Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno apprezzato la mia voce e, se me lo concedi, vorrei rivolgere loro una preghiera. La musica non morirà fintanto che il pubblico continuerà ad essere esigente. Pertanto non conformatevi alle masse, non seguite necessariamente le mode! E soprattutto non consideratevi soddisfatti se almeno per un momento durante un ascolto non avete provato un brivido sulla pelle.»
Filippo Tadolini