Vivacissima, molto spontanea è stata la conversazione conviviale che abbiamo avuto lo scorso 9 marzo con il maestro Alessandro De Marchi durante la pausa delle prove del Barbiere di Siviglia al Teatro Regio di Torino. Dal 2010, il musicista romano è Direttore artistico del Festival di Musica Antica di Innsbruck, e dal 2016 ne è anche Sovrintendente. Due grandi iniziative hanno contraddistinto la sua gestione sin dall’inizio: il Concorso di canto barocco intitolato a Marco Antonio Cesti, l’operista secentesco che fu attivo anche alla corte arciducale di Innsbruck, e la collegata BarockOper:Jung, che offre ai migliori concorrenti dell’anno prima la possibilità di maturare e porsi nuovamente in luce partecipando alla produzione del titolo da cui era stato tratto il repertorio d’obbligo del concorso: dalla Calisto alla Poppea, dall’Orontea alle Nozze in sogno, dall’Octavia agli imminenti Amori d’Apollo e Dafne.
È per noi un grande piacere, Maestro, incontrarla anche qui in Italia.
“Io son fortunato davvero”… A Torino, a Venezia, ogni tanto a Napoli, sono tutti bei teatri dove si lavora bene e davvero non posso dire “qui sto bene, qui sto male” … A Torino, poi, mi sento proprio in famiglia.
Il Festival di Musica Antica di Innsbruck, che l’estate prossima sarà diretto da lei per la nona volta, colpisce molto per la varietà, che ci è anche sembrata in forte crescita negli ultimi anni: nel solo settore operistico, farete la Didone abbandonata di Mercadante, Gli amori di Cefalo e Procri di Cavalli, la Semele di Hasse, a cui possiamo aggiungere l’oratorio Davide e Golia di Alessandro Scarlatti. Per tacere dell’emozionante finale del Concorso e del nutrito programma da camera, con al vertice “doppio concerto” sull’età d’oro del quartetto d’archi...
…quello dedicato al liutaio Steiner. Quest’anno affrontiamo per la prima volta un’opera di bel canto, che ha una relazione, naturalmente, con il programma e ha una relazione anche con la nostra storia perché questa è un’opera di Mercadante, creata per Torino nel 1823, però su libretto di Metastasio; quindi il legame con il Settecento è fortissimo: c’è stato un periodo, nel primo Ottocento, in cui i libretti di Metastasio venivano “aggiustati” per le esigenze dell’opera “moderna”.
C’è anche un illustre precedente mozartiano…
Sì, La clemenza di Tito, certo. Ma all’epoca il rinnovare, il riadattare era normale, anche io ho eseguito la Clemenza come era stata data alla Scala e a Vienna nell’Ottocento, e anche lì c’erano delle arie aggiunte, c’erano dei piccoli tagli, tutto un po’ modernizzato.
La Didone di Mercadante è coetanea della Semiramide.
Sì, lo stile che imperava era quello rossiniano e quindi Mercadante, per poter emergere, non poteva fare a meno di scrivere in quella maniera. Ed è bellissima musica, bellissima musica! È un autore molto interessante e ingiustamente sottovalutato; è vissuto molto a lungo e le sue ultime opere sembrano quelle di Verdi! Avrei potuto anche fare un Rossini, però il problema è questo: che sia Rossini, sia le opere, diciamo, “barocche” che sono entrate nel repertorio, sono titoli che oramai si trovano in qualsiasi teatro e un Festival, secondo me, deve offrire delle cose differenti…
…e lei è sempre andato in cerca di titoli abbastanza insoliti, dal Flavio Bertarido di Telemann alla Stellidaura vendicante di Francesco Provenzale, che mi pare solo lei avesse già diretto, alla Monnaie…
Sì sì, in scena l’avevo fatta solo io; una volta l’aveva diretta in forma di concerto Toni Florio, con la sua Pietà dei Turchini e io l’avevo fatta alcuni anni prima di lui a Bruxelles. Il senso di un Festival è proprio questo: il più possibile ci devono essere delle riscoperte. Il Germanico, per esempio, è stato una rivelazione, perché il Porpora operistico è straordinario.
Come è “approdato” alla musica antica, Maestro? Abbiamo anche letto della sua passione per il jazz...
A diciotto anni avevo un’energia che adesso ad avercene la metà già basterebbe, quindi facevo tante cose: studiavo organo al conservatorio, prendevo lezioni private di composizione, studiavo jazz. Andavo tutte le estati a Siena a lezione di jazz, e suonavo con il Centro italiano di musica antica, di Roma, che è stata la prima orchestra “barocca” in Italia, in un’epoca in cui le orchestre “barocche” da noi non esistevano ancora: c’era gente che veniva apposta dall’estero per suonare in quest’orchestra; e tutti, diciamo, i miei “concorrenti” attuali sono passati da lì: Alessandrini, Minkowski, che suonava il fagotto, Enrico Gatti … cioè quasi tutti i nomi che adesso “girano”. Fabio Biondi faceva il primo violino.
Eravamo negli anni Ottanta, grosso modo?
Avevo diciassette anni, sono nato nel ’62, facciamoci un conto … siamo al ’79. Poi mi sono innamorato di questo repertorio, però la ragione vera è ancora un’altra: nel Settecento, dalla fine del Seicento e per tutto il Settecento fino all’inizio del Novecento, si usava per la composizione un sistema, inventato praticamente dai Conservatori napoletani, che era quello detto “dei partimenti”. I giovanissimi allievi dei Conservatori – cominciavano a cinque o sei anni – imparavano a improvvisare delle composizioni partendo da una traccia che era solamente un basso, solamente la linea più grave della musica, con l’aggiunta di qualche numerino, per imparare a fondo tutte le regole della grammatica musicale, per imparare la musica come si impara la lingua materna. Noi, appena nati, non è che impariamo il congiuntivo, l’imperfetto, le declinazioni … no, noi sentiamo parlare e impariamo a parlare perché sentiamo parlare. Ecco, si insegnava la musica alla stessa maniera: imparavano, suonando, la musica, gli accordi, le armonie, assorbendo le forme. Questo sistema dei partimenti assomiglia poi moltissimo anche a quello che si fa nel basso continuo, quando s’impara, seguendo la linea del violoncello, a improvvisare delle cose, come fanno per esempio quelli che accompagnano i recitativi. Quando studiavo al Conservatorio, ho avuto un grande insegnante, Domenico Bartolucci, che fu direttore perpetuo della Cappella Sistina: lui aveva imparato così, il suo maestro aveva imparato così e tornando indietro si arriva probabilmente fino a Palestrina, e mi ha insegnato questa cosa. Un giorno, poi, vidi un annuncio del Centro di musica antica in cui il “capo”, che era Sergio Siminovich, invitava dilettanti e professionisti di ogni strumento, di ogni tessitura vocale, a fare un concerto “a prima vista” una domenica pomeriggio. Lui, una volta al mese, organizzava un concerto di questo tipo: l’appuntamento era alle tre del pomeriggio, lui vedeva chi arrivava e a seconda dell’organico sceglieva il programma, si facevano venti minuti di prova e poi il concerto, praticamente a prima vista. Quando arrivai mi disse: “Che fai?”, e io: “Suono l’organo”; e lui: “Ma sai fare il basso continuo?” … “Sì!”. Rimase un po’ perplesso, perché questo all’epoca non era “normale”, e mi chiese: “Ma nel senso che sai leggere le cifre…?” E io: “Sì!”... “. Beh, vieni…”. Facemmo questo concerto e poi rimasi perché mi accorsi di quanto era bello fare questa cosa: l’avevo imparato come esercizio, e mi accorsi che lo si poteva integrare con una musica più grande: c’era un coro enorme, c’erano musicisti che suonavano violini, viole, violoncelli barocchi, per me era tutto un mondo che non conoscevo. Cominciai così e sotto Siminovich eseguii quasi tutti gli oratori di Händel, quelli di Bach, le cantate di Bach, di Buxtehude... Era un gruppo che suonava senza prendere una lira, tutti giovanissimi, un miscuglio di dilettanti e di professionisti. A quell’età è proprio un imprinting, snoccioli questi capolavori, che poi non approfondii tantissimo, ma ne ho fatto un’abboffata negli anni importanti, tra i sedici e i ventidue, quelli della formazione, e poi ho continuato su quella strada. Adesso il mio repertorio si è ampliato e dirigo un po’ di tutto, ma le cose che si imparano a quell’età rimangono.
Anche nei programmi di sala di Innsbruck degli ultimi anni lei ha scritto molto spesso sulla necessità, l’opportunità di riprendere la capacità di improvvisare. Osserva che, mentre nel campo strumentale si è andati abbastanza avanti, il problema grosso resta quello d’ improvvisare il “contrappunto alla mente”. E quando si legge il “contrappunto alla mente” viene in mente “il contrappunto bestiale alla mente” di Banchieri…
Sì, quella è la parodia di quel che può succedere improvvisando, perché può accadere che i cantanti non si mettano d’accordo bene e allora succedono dei pasticci. Adesso poi la ricerca è andata avanti; per esempio da alcuni anni è uscito un libro meraviglioso di Luca Chiantore, un ottimo pianista, un grande studioso che insegna Storia dell’interpretazione all’Esmuc di Barcellona, Escuela Musical de Catalunya, e anche un ottimo didatta. Oltre ad avere scritto l’unica, grande, interessantissima storia della tecnica pianistica, ha poi scritto un libro che si chiama Beethoven al pianoforte: Chiantore analizza una serie di piccoli frammenti, di schizzi, di appunti ai quali non era mai stato dato un grande rilievo perché, non essendo composizioni compiute, gli studiosi le hanno tenute lì: “vabbè, si è preso un appunto …”; invece pare che Beethoven, come i Bach, come Mozart, come Chopin, come Liszt, come tutti i più grandi compositori pianisti della storia, non solo suonasse bene, ma fosse perfettamente in grado di comporre “all’impronta”, quindi gli davi l’idea di un tema e lui, come, che ne so, il nostro Bollani o Keith Jarrett, come tutti i più grandi pianisti jazz di oggi, sapeva improvvisare. I grandi jazzisti non è che abbiano il filo diretto con Dio, che per scienza infusa gli dà le idee, loro accumulano materiale musicale nella testa per tutta la vita; poi imparano a “trasportarlo”, cioè a suonarlo in tutte le tonalità. Questa “improvvisazione”, in realtà, è una cosa combinatoria; naturalmente ci vuole una lucidità di testa impressionante, però, in realtà, è un sistema per coordinare i pensieri in maniera modulare. Quindi pare che per Beethoven questi “schizzi” fossero proprio gli esercizi che lui faceva per prepararsi all’improvvisazione. Di Chopin gli allievi hanno detto che le cose più belle che hanno sentito da lui non le ha mai trascritte, perché le sapeva a memoria e quando le suonava non gli venivano mai uguali… La storia dell’improvvisazione è interessantissima perché si è persa completamente, e stiamo aspettando il grande musicista che riesca a tornare a quei livelli, ma sarà molto difficile… Uno ci sarebbe, ma è difficile da convincere: il pianista Gianluca Cascioli, per esempio, è un grandissimo improvvisatore; è molto difficile convincerlo a fare queste cose in concerto, ma sentirlo a casa è uno spettacolo! E prepara anche delle cadenze meravigliose per i concerti di Mozart. Insomma, a proposito di improvvisazione c’è ancora tanto da fare, e per quanto riguarda l’improvvisazione collettiva è ancora più difficile. Ci sono degli esperimenti, ma ci vorrebbero dei grandi musicisti che si occupino di queste cose.
Come si può spiegare l’enorme aumento d’interesse per la musica “barocca” negli ultimi decenni?
La questione è un po’ paradossale: il “clamore” sulla musica antica è nato come fuga dalle orchestre grandi. I primi che hanno cominciato, la famiglia Harnoncourt per esempio, erano professori di orchestra che non ne potevano più di essere mescolati tra altri trecento musicisti e tornavano a fare queste cose per poter suonare in piccoli gruppi, per essere creativi… Il paradosso è che alla fine di questo grande processo ci saranno musicisti d’orchestra “barocchi” che fanno solo orchestra e che di nuovo saranno schiavi di una struttura più grande, senza niente da dire perché comanda il direttore... In questo senso è stato un po’ un fiasco, però son nate anche tante belle cose. La moda c’è stata, specialmente in Francia; da noi, veramente folgorante non è arrivata mai, e adesso sta toccando degli apici importanti per via del ritorno dei “castrati”, che castrati ovviamente non sono, però diciamo che, piano piano, il divismo che c’è stato nel Settecento per i grandi castrati sta tornando “paro paro” con i controtenori famosi. Simile è anche la questione economica: si sa che i grandi castrati si prendevano una gran parte del budget del teatro, e per l’orchestra e il compositore non rimaneva niente. Anche adesso vi assicuro che le proporzioni sono le stesse!
Una decina d’anni fa, la seconda volta che sentii l’Accademia Montis Regalis, nell’Orfeo ed Euridice a Savona mi colpì molto il senso di freschezza degli strumentisti. Dirigeva lei, e tutto fu molto vivace, spontaneo. E così anche quando la stessa orchestra aveva fatto la San Giovanni, proprio qui a Torino…
…con Rousset…
…e il coro splendido del teatro, con Bruno Casoni. Mi aveva colpito proprio la sensazione di estrema libertà, specie rispetto alle esecuzioni di scuola, per così dire, “luterana”. È un po’ l’aria che si respira a Innsbruck d’estate, dove il festival sembra elitario ma è così seguìto, fino a culminare in quella formula interessantissima della finale del Concorso Cesti. Anche il pubblico, infatti, mi sembra a Innsbruck molto diverso che altrove.
Mi piacerebbe, è vero, avere più personaggi famosi che vengono tra il pubblico e che ci portano un po’ di stampa, però il nostro pubblico è meraviglioso: il settanta per cento è di Innsbruck, e questo è molto particolare: c’è gente che si organizza le vacanze per riuscire a venire…
Non pensate che Salisburgo, nello stesso periodo, vi levi un po’ di pubblico?
Non credo che abbiamo lo stesso pubblico. Anche i budget sono diversissimi: noi con tre milioni di Euro facciamo tutto. Loro sessanta milioni… Lo dico sempre, anche ai politici locali: “voi siete abituati male, perché noi facciamo miracoli … a voi sembra tutto normale ma sfornare programmi così, con quello che ci dànno…”. Che poi va benissimo, eh!
Lei, Maestro, si sente più portato a dirigere le voci o “la musica”?
Bella domanda… Io sono innamorato delle voci e dirigo l’opera con molto piacere, è quasi l’attività principale. Devo dire, però, che un direttore d’opera è più un coordinatore e un organizzatore, è un po’ il papà della produzione, tiene tutto insieme ma in realtà coordina più interpretazioni, cercando di dare, diciamo, una veste estetica comune a tutta l’operazione. Nella direzione di un brano sinfonico il direttore è l’interprete… e basta! Sono proprio due lavori diversi. Io non faccio tanto sinfonico, ma quando lo faccio capisco di essere proprio il centro, il fulcro. Come direttore d’opera sono un medium: sono, sì un catalizzatore, ma è un dare e avere quel che c’è comunque già nei musicisti. Anche con l’orchestra, in un programma sinfonico, è sempre un dare e avere, ma… insomma, è molto diverso. Per tutta l’infanzia ho ascoltato solo Verdi e Puccini perché la parte napoletana della famiglia adorava l’opera. Quando avevo sei anni mi volevano allo “Zecchino d’oro”, perché imitavo i grandi tenori, con la voce che può avere un bambino di sei anni: facevo la voce nasale e pensavo di essere tenore. Ma non sono andato: mi vergognavo e non sono voluto andare… Come mio background mio personale, ci sarebbe quindi anche un certo repertorio, che però non mi chiedono!
Ma lei ha diretto anche qualcosa del verismo!
Sì, capita di fare delle serate di gala in cui ci sono vari pezzi famosi. Ad esempio, il prologo di Pagliacci l’ho diretto, ma tutta l’opera no.
Verso chi si sentirebbe portato, di questo repertorio?
Puccini, sicuramente. Ho diretto anni fa a Parigi, con l’orchestra della radio, un oratorio, meraviglioso, di Lorenzo Perosi, che è stato anche lui, come Bartolucci, direttore perpetuo della Cappella Sistina. In realtà io sono in qualche modo un suo “discendente”, in quanto lui ha scelto il mio maestro di composizione. Praticamente scriveva come Puccini e io mi sono trovato a fare questa cosa, che non avevo mai fatto, e mi sembrava di non avere fatto nient’altro in vita mia. La stessa cosa mi è successa quando ho cominciato a dirigere il bel canto… e chi l’aveva mai fatto! Ho cominciato direttamente, forse questa naturalezza viene dai miei ascolti da bambino, chi lo sa! Quando feci la registrazione della Sonnambula, con Flórez e la Bartoli, mi avvisarono dieci giorni prima… e l’ho imparata in aereo: sono arrivato lì e hanno acceso i microfoni. Però non ho detto “Come faccio!”, in me c’è un istinto per questa musica che da qualche parte arriva.
Nelle biografie dei cantanti di area culturale non italiana, specie esempio austro-tedesca e anglosassone, si nota che è raro che si limitino a un solo repertorio: un soprano canta Elektra e canta Monteverdi. Qui in Italia, invece, la stessa versatilità non sembra concepibile.
Sì, ci sono delle eccezioni ma c’è ancora molta diffidenza, si tende a pensare che le voci grandi fanno quello, le voci piccole fanno questo. Non è proprio così; per esempio qui a Torino, in un teatro come questo, il cantante che quest’anno canta Orfeo [quello di Monteverdi] ha una bellissima voce, grande, e se non fosse così non arriverebbe. Insomma, questa storia che le voci grandi fanno l’Ottocento e le voci piccole fanno il “barocco” è un po’ una stupidaggine; è ancora nell’opinione comune, ma è sbagliato, per due motivi: primo, se il signor Pavarotti, esattamente identico a come è stato, fosse nato nel 1703, con quale voce avrebbe cantato? La risposta è “con la sua”, perché lo strumento è quello e non si può cambiare. In un posto grande avrebbe “strillato” de più in uno piccolo avrebbe “strillato” de meno, ma lo strumento era quello. Si dice anche: “sì, ma i teatri erano più piccoli”. Invece non è vero! Il San Carlo è enorme! Quanti ne tiene? duemila? tremila? E stiamo parlando degli anni Trenta del Settecento. Se avessero ragione quelli che dicono che le voci piccole devono fa’ il barocco, vorrebbe dire che per centinaia di anni il pubblico dell’opera ha sentito solo l’orchestra.
Chi organizza il Festival di Musica Antica di Innsbruck?
La nostra società appartiene al 51% alla Regione e il resto alla Città: sono loro i nostri datori di lavoro. Dall’autunno prossimo avremo a disposizione anche la nuova struttura, la Haus der Musik, che comprende tutte le istituzioni musicali della città, riunite in un unico grande sito.
Ma la continuità che ci sembra di trovare nei teatri austriaci e tedeschi, deriva anche dal fatto di avere il “gruppo stabile”, l’ensemble?
È questione di repertorio: un paio di prémière ogni anno e il resto è repertorio; quindi: l’orchestra e i cantanti conoscono bene l’opera. Io ora, qui con il Barbiere, faccio due prove con l’orchestra, due prove in palcoscenico e si va. E l’anno prossimo faccio le Nozze di Figaro alla Staatsoper di Berlino: ho una prova con l’orchestra, una! Con orchestra e cantanti tutti insieme, e poi via.
La Staatsoper di Berlino è stata importante per la sua carriera?
Importante? Eh sì! Io ero lì come assistente di René Jacobs per una produzione di Cleopatra e Cesare di Graun, forse venticinque anni fa. E facevo da assistente in questa produzione che fu un enorme successo, a fine stagione. Poi all’inizio della stagione successiva ci ritrovammo per la ripresa e René Jacobs non era libero per le prime due prove, che diressi io. A una di queste prove, mi si siede vicino Daniel Barenboim e mi guarda lavorare. Sono mezzo napoletano e avere uno addosso non mi fa granché… Faccio la mia prova, alla fine lui esce, esco anche io, vedo che mi aspetta e mi dice “Bravo, ma tu non è che c’hai voglia di lavorare qua da noi?” Io non ci avevo pensato, perché all’epoca non sapevo manco la trama della Bohème: suonavo il clavicembalo, suonavo l’organo, suonavo la musica antica, avevo fatto un po’ di jazz, però l’opera non era per niente il mio mondo. Insomma gli dico: “Ma … non lo so … non so se sono adatto a lavorare qua…”; e lui: “Non ti preoccupare, che c’ho occhio…”. Poi io, che avevo appena cominciato a dirigere le piccole cose con strumenti antichi, dissi. “Però in effetti stavo cercano di fare qualcosa da direttore…”; e lui: “Guarda che un teatro tedesco è il posto ideale per diventare un direttore d’orchestra!” Che ne sapevo? Vivevo a Roma, suonavo il clavicembalo, avevo un mondo ancora molto limitato; pensi che sono stato per la prima volta al Teatro dell’Opera di Roma a quarant’anni. Proprio non ci pensavo, ascoltavo i dischi delle mie zie, di mia mamma, ma a casa: io non ero appassionato d’opera. Però ero un musicista “finito”, avevo studiato composizione, organo, facevo la musica da camera … cioè io come formazione musicale ero completo, ero un musicista fatto, diciamo. Però c’era questa lacuna. Ma alla fine insistettero, mi diedero uno stipendio talmente interessante che accettai. Con tre mesi liberi all’anno, pagati! Insomma era una cosa insolita, e accettai. Mi sono fatto sei o sette stagioni come pianista dell’opera. Un lusso sfrenato, oggi impensabile: per ogni repertorio c’erano i pianisti specializzati. E lì ho fatto le mie cose: ho fatto ovviamente barocco, Mozart, Verdi, un po’ di Puccini; ma tutti i Wagner e gli Strauss li facevano altri pianisti. E poi in un teatro tedesco si impara di tutto, perché tranne che pulire i gabinetti ho fatto tutto; si insegna la pronuncia italiana, si danno gli attacchi alle luci … si entra in un mondo che poi va a finire che sei sempre lì! Ti guardi le recite… E poi son passati dei grandi direttori; ho conosciuto Mehta, che mi ha visto dirigere e mi ha portato al Maggio, ho conosciuto Abbado, che mi ha preso come assistente per alcune delle sue cose con i Berliner, e poi Barenboim che ogni volta che prende la bacchetta in mano è una lezione perché è un tale musicista! Dopo sei o sette stagioni, non ricordo esattamente, cominciavo ad avere tanti di quegli inviti fuori che mi sono licenziato… Barenboim, che mi voleva tenere, è stato offeso per un paio d’anni, ma poi tutto bene. Anzi, ci siamo rivisti a Berlino ed anche a Napoli!
Chi altri è stato molto significativo per lei?
René Jacobs¸ e Jesper B. Christensen, il mio maestro di Basilea. Sono state tre figure proprio centrali. Jesper per il rigore quasi scientifico della ricerca filologica; rigore assoluto! Jacobs, al contrario: il capriccio, il capriccio totale, l’estro, l’interpretazione personale. E Barenboim per la profondità del pensiero e l’importanza della tradizione, della scuola, del fare le cose per bene… Sì, la professionalità è importante!
Dove vive, Maestro?
Vicino a Stoccarda, in un paesino di duemila abitanti. Nemmeno tanto piccolo in confronto al paese dove vive la mia famiglia paterna! Perché a Trognano di Cascia, in Umbria, dove tutti si chiamano De Marchi, sono trentasei. Anzi, adesso che è morta Aurora son trentacinque, quindi dove abito io, in confronto è una metropoli. L’Umbria è meravigliosa. Purtroppo da quando c’è Innsbruck io non c’ho più l’estate, e in Umbria andavo d’estate…
Ci dispiace per lei, ma siamo contenti per noi!
Eh, sì, sì… certo! E adesso il contratto è fino al 2021! Mi hanno già riconfermato due volte.
E fanno bene!
Eh, anch’io son contento! Mia moglie un po’ meno, ma io son contento!
La signora è italiana?
Tedesca, di Stoccarda
Quindi la signora vorrebbe stare di più in Italia?
Ma sì! È artista, dipinge, scolpisce, fotografie, video … adesso sta montando un documentario su Caravaggio.
Ha figli, Maestro?
Una figlia, ventiquattrenne, dal primo matrimonio. Vive a Roma e studia grafica.
Il teatro di Stoccarda, e tocchiamo un argomento che finora abbiamo evitato, è celebre per le regie…
Ehhh…. Ehhhhh!!! Lì ho fatto due cose, una bellissima: era il Masaniello furioso di Reinhard Keiser, un libretto rivoluzionario sulla rivoluzione napoletana, un pezzo bellissimo. Poi feci Il ritorno di Ulisse in patria, con una regia talmente moderna, che… … Il fatto è che Monteverdi ha bisogno di una certa poesia, diciamo, ma anche di un aiutino acustico perché ci sono così tanti madrigali, duetti: non può essere asettico. Invece il palcoscenico era completamente vuoto, poi il teatro di Stoccarda non è piccolo, quindi questi poveri cantanti spersi in mezzo al nulla, tutta una cosa strana…
A Innsbruck, anche durante la stagione invernale, nelle regie “mediano” sempre: c’è la modernità ma con gusto meno trasgressivo, meno eccessivo…
Che poi, trent’anni fa, se volevi scioccare, scioccavi… Ma adesso, che bisogno c’è? La storia delle regie è molto complessa. Per quello che riguarda il mio ruolo di direttore artistico, anzi ora mi hanno nominato sovrintendente, anch’io so che non posso far contenti tutti, non è possibile. Perché se vado troppo sul classico, c’è una buona parte della critica che dice “che palle, non se ne può più!”, se vado troppo sul moderno il pubblico non viene. Cioè, bisogna trovare… E io cerco ogni anno di fare delle cose diverse. Se guardate le regie che sono state fatte a Innsbruck, non ce n’è una uguale all’altra.
Il ritorno d’Ulisse in patria che lei diresse l’anno scorso, secondo noi era molto ben centrato: nella regia c’era una logica ben percepibile.
Ma una parte della critica ci ha massacrati!...
È diverso essere direttore artistico o sovrintendente?
Nel mio caso è quasi la stessa cosa. In un teatro normale no, perché il sovrintendente ha un incarico più politico, più amministrativo. Invece tutte le competenze, diciamo, amministrative, io le delego a delle persone che lavorano con me, che sono bravissime, altrimenti non potrei avere questa carica e fare il direttore d’orchestra: dovrei stare lì, con la calcolatrice sempre accesa, il telefono che suona. Ho una Betriebsdirektorin [“direttrice d’impresa”] eccezionale, Eva Maria Sens, che è un po’ il mio braccio destro; quindi, in realtà, faccio più il lavoro di direttore artistico, che è quello della scelta dei programmi, le ricerche sulle opere inedite e, insieme al direttore di produzione, la scelta dei cantanti, dei registi, direttori, scenografi.
In quante persone siete a lavorare per il Festival?
In inverno siamo io, la Betriebsdirektorin, il direttore di produzione, due persone fisse in ufficio, una segretaria, un assistente, l’addetto stampa, un “drammaturgo”: otto o nove. In estate diventiamo trenta, abbiamo tutti praticanti, giovani.
Può dirci ancora qualcosa sul Festival di Innsbruck, Maestro?
Certo! Il Davide e Golia di Alessandro Scarlatti, che faremo in agosto, è un pezzo meraviglioso, un’opera monumentale, con doppio coro, l’orchestra, concertino e concerto grosso, parecchi solisti. È in latino e prosegue la piccola serie di oratori che sto facendo, iniziata parecchi anni fa con la Sant’Agnese di Bernardo Pasquini; poi ho fatto la Salomè di Stradella, che si chiama in realtà San Giovanni Battista… L’avete vista? [facciamo cenno di sì]. Che serata meravigliosa! Mi son commosso pure io. C’era l’Arianna Vendittelli che me la sarei voluta impacchettare e portare a casa, tanto fu brava… E continueremo anche l’anno prossimo con questa serie di oratori, faremo un oratorio bellissimo… Sì! Oratorio o musica sacra, ogni anno c’è sempre… Poi andiamo avanti con gli inediti, già stiamo lavorando per il ’19 e per il ’20. Abbiamo delle belle sorprese in serbo.
Alla finale del Concorso Cesti ci sarà lo stesso numero di cantanti?
Dipende da quanto son bravi! Più ce ne sono di bravi e più ci sono finalisti! Alcuni degli ex stanno facendo una bella carriera! Ma che ora abbiamo fatto? Quasi le tre, non sembrava! Devo proprio andare, ricomincio la prova tra cinque minuti…
Grazie, Maestro, e arrivederci in agosto a Innsbruck.
Marilisa Lazzari e Vittorio Mascherpa