Abbiamo incontrato a Macerata Barbara Minghetti, direttrice artistica del Macerata Opera Festival e responsabile della programmazione del circuito ASLICO, e le abbiamo posto qualche domanda sulla faticosa ripartenza dell'attività lirica in Italia e sui progetti che riguardano le istituzioni che segue.
È dunque ripartito Macerata, primo festival a riproporre un’opera lirica in scena.
C’è stato il Rigoletto a Roma, ma il Teatro dell’Opera lo ha programmato dopo di noi, che abbiamo sempre pensato che avremmo fatto il Festival. Non sapevamo in che forma, quando poi abbiamo saputo la natura delle restrizioni abbiamo ripensato la struttura, perché tre produzioni non avevano più senso, e abbiamo deciso di mantenere il Don Giovanni, che ci è sembrata la scelta più sensata e ne siamo contenti, perché il pubblico ci ha seguito e abbiamo il tutto esaurito per tutte le recite. Non solo il pubblico, devo dire, ma anche la città, gli artisti e tutte le maestranze.
Guardando questa produzione di Don Giovanni, fra l’altro, non c’è stata mai l’impressione di trovarsi davanti a un “surrogato” creato per rispettare i distanziamenti ma un progetto nuovo e compiuto.
In realtà durante i primi giorni di prove eravamo quasi maniacali nel dire “questo non si può fare…dividetevi…state lontani”, però alla fine il risultato è stato molto teatrale, nel trovare giorno per giorno soluzioni con cui, nonostante la distanza, si potesse raccontare una storia.
I problemi più immediati con i cantanti quali sono stati? Penso anche solo alla raccomandazione di non cantare uno di fronte all’altra.
La prima settimana eravamo tutti spaesati, uscivamo tutti dal lockdown, e subito dopo abbiamo quasi avuto il problema contrario, a dire “ok il distanziamento, però tante cose le potete fare”. Anche con l’orchestra e il coro abbiamo fatto diversi riposizionamenti e sistemazioni per trovare gli equilibri musicali. Ed è anche il motivo per cui abbiamo scelto di mantenere il Don Giovanni rispetto alla Tosca, con la quale non avremmo potuto garantire gli stessi equilibri musicali proprio per il tipo di scrittura rispetto ai limiti che ci sono stati imposti.
Parliamo dell’altra realtà musicale in cui è attivamente coinvolta, l’Aslico. Che prospettive ci sono?
Il momento è più difficile perché mentre all’aperto il pubblico c’è e si trova anche più sicuro a venire, i teatri al chiuso sono in completo buio. Noi stiamo spingendo molto perché anche i teatri di tradizione possano fare qualcosa, ovviamente con la prima scelta di rappresentare un’opera anche se diventa davvero complesso. Per l’Aslico c’è una progettualità, ovviamente ripensata rispetto ai cinque titoli originariamente previsti: oltre al fatto di fare o meno un Trovatore, che senso ha farlo con trecento persone in teatro? Per cui abbiamo ristudiato dei progetti, uno in particolare a cui tengo molto con un grande artista. Però l’unica cosa che ci può aiutare a riprogrammare, con la sicurezza e quello che sarà, è riaprire i teatri.
Può essere l’occasione, come stanno già facendo, di proporre titoli desueti e adatti alla situazione ma non con l’ottica di saggio di concorso o “palestra” per giovani? Penso a quanto ha in programma il Teatro delle Muse di Ancona con opere come il Pepito di Offenbach e il Marc’Antonio e Cleopatra di Hasse con nomi quali Alfonso Antoniozzi, Ottavio Dantone e Alessandro Corbelli
Credo che nel male di tutta questa pandemia si possa arrivare ad un salto di qualità nella programmazione, ma per questo abbiamo bisogno che vengano superati i limiti restrittivi che ha l’importantissimo contributo dato dal Fus, la cui ripartizione agisce oggi per numeri, giornate, alzate di sipario. Per cui il ripensare la programmazione in termini di contemporaneo, monologhi, opere da poter mettere in scena senza grandi masse passa anche per il riconoscimento di contributi stabili e per un’apertura multidisciplinare del codice dello spettacolo.
Finora però mi pare di capire che sia soddisfatta della risposta da parte del pubblico.
Si molto contenta, anche perché io credo che abbiamo anche una responsabilità civica verso il luogo in cui ci troviamo, dai negozianti alla popolazione che ci hanno aiutato a sviluppare un percorso da festival fatto anche di eventi come le notti dell’opera, le manifestazione sul territorio con i bambini e le persone affette da problemi di autismo, e tutto questo è fondamentale perché poi abbia senso fare il Don Giovanni.
Domenico Ciccone