Riccardo | Francesco Meli |
Renato | Vladimir Stoyanov |
Amelia | Kristin Lewis |
Ulrica | Silvia Beltrami |
Oscar | Serena Gamberoni |
Silvano | Walter Corrò |
Samuel | Simon Lim |
Tom | Mattia Denti |
Un giudice | Emanuele Giannino |
Un servo d'Amelia | Roberto Matarazzo |
Regia | Gianmaria Aliverta |
Scene | Massimo Checchetto |
Costumi | Carlos Tieppo |
Light designer | Fabio Barettin |
Movimenti coreografici | Barbara Pessina |
Direttore d'orchestra | Myung-Whun Chung |
Maestri del coro |
Claudio Marino Moretti Diana D'Alessio |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
Piccoli Cantori Veneziani |
Colpisce che al Teatro La Fenice, uno dei sacrari della tradizione verdiana, secondo solo alla Scala come numero di “prime assolute” del sommo operista, Un ballo in maschera abbia avuto appena dieci “produzioni” e quarantadue recite in tutto nel secolo e mezzo trascorso dalla prima locale del 1866 alla stagione scorsa. Sorprendono, in particolare, la lunga assenza del titolo dal palcoscenico di Campo San Fantin tra il 1868 e il 1939 e la mancanza di quelle lunghe serie di repliche che quasi dovunque hanno contraddistinto i lavori verdiani al loro primo apparire sulle piazze teatrali d’Italia, sia prima sia subito dopo l’unificazione politica. Molto opportuna è sembrata quindi la scelta della Fenice d’inaugurare la stagione teatrale 2017-18 con questo titolo, che mancava in Laguna dall’aprile 1999, quando ebbe sette recite nella sede provvisoria ma comodissima del Tronchetto.
La scelta del teatro è stata d’affidarsi per la parte musicale a un Maestro concertatore e direttore di grandissimo prestigio, prediletto dalle masse artistiche locali, con un tenore e una coloratura “di grande cartello”. Per la parte scenica s’è puntato su un regista trentatreenne proveniente dalla dura realtà dello spettacolo lirico “povero”, cioè dall’esperienza dell’associazione VoceAllOpera, da lui fondata nel 2011 e dedicata, come ci informa la sua nota biografica, «alla divulgazione dell’opera lirica in contesti inusuali». Gianmaria Aliverta è certamente estraneo alle mode, ormai divenute “tradizione” nel senso negativo del termine, dello spettacolo lirico come psicanalisi visualizzata: non gli mancava però, anche prima di questa regia, l’esperienza del grande palcoscenico, avendo realizzato all’Opera di Firenze Hänsel e Gretel e qui a Venezia, due stagioni fa, Mirandolina di Bohuslav Martinů, spettacoli accolti da diffusi consensi. Per i décors e i costumi gli sono stati affiancati Massimo Checchetto e Carlos Tieppo, rispettivamente “direttore dell’allestimento scenico” e “responsabile dell’atelier costumi” della Fenice, che supponiamo abbia anche coordinato l’accuratissimo trucco.
La regia non ha comportato interventi drammaturgici, limitandosi a trasporre l’epoca della vicenda dal secolo XVII agli anni del secolo XIX vicini alla composizione dell’opera e all’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti (un termine a quo, in sé irrilevante, sarebbe la presenza nell’ultimo quadro della Statua della Libertà, che fu innalzata nel 1886). La trasposizione ha comportato, da una parte, l’eliminazione dal libretto di ogni riferimento all’Inghilterra, dall’altra una maggiore pregnanza e attualità al controverso riferimento ai “negri” nel primo atto dell’opera, anche se la loro condizione legale nel New England del Seicento già non era sostanzialmente diversa da quella negli Stati Uniti ai tempi in cui Lincoln liberò gli schiavi (beninteso quelli altrui, come osservò a botta calda il nostro Massimo d’Azeglio, laddove lo zar di Russia liberò i propri…). L’impianto scenico varia a ogni quadro, con anche il ritorno delle vecchie pause di cinque sei-minuti “a mezze luci”. Elemento comune ne è il fondo di tela nera, su cui si stagliano le figura dei personaggi, avvolti in diversificati costumi d’alta fattura sotto le luci frontali e dall’alto di Fabio Barettin. Il primo quadro è un’aula parlamentare o d’udienze giudiziarie, a cui si scende da un imponente scalone laterale; il secondo, «la magion d’Ulrica», è privo d’elementi fissi, ma riempito da una miriade di specchi, bruniti e girevoli, con cui il coro giocherà durante la celebre “barcarola” di Riccardo; il terzo, l’«orrido campo», si presenta con un grosso scoglio mobile centrale; il quarto è un ampio salone, senza dubbio un po’ abbondante come abitazione di Renato; l’ultimo una terrazza vicina alla testa della newyorkese Statua della Libertà, dove sono ambientati i non prevaricanti movimenti scenici di Barbara Pessina. La ”scena corta” con la grande aria di Riccardo è semplicemente chiusa a pochi metri dal proscenio da un’enorme bandiera americana (con le cinquanta stelle d’oggi, però…). In questi “contenitori”, realizzati con notevole perizia artigianale, la regia muove i cantanti in modo molto vicino alle didascalie del libretto; gli esiti sono più felici nel terzetto del second’atto, con la sottolineatura della sostanziale “incomunicabilità” dei protagonisti, e quando, come nel caso di Oscar, si mira a creare una figura originale a tutto tondo (Aliverta ha dichiarato d’essersi ispirato a Oliver Twist). Senza dubbio ha contribuito molto a questa riuscita l’interprete del “paggio”, Serena Gamberoni, ogni comparsa della quale ha portato una ventata di freschezza e vitalità nell’insieme, sia dal punto di vista scenico, sia da quello vocale. Il soprano tridentino ha dimostrato una completa padronanza del ruolo, per il quale è del resto celebre: le colorature sono impeccabili e, quel che più conta, sempre espressive.
Per cantare Riccardo, il tenore Francesco Meli dispone del timbro, dell’emissione, della dizione chiarissima e della varietà dinamica a nostro parere ideali. Ne esce un personaggio d’elegante signorilità, quasi estraneo all’ambiente. Per almeno tutto il prim’atto, la sua è un’autentica lezione di canto e ci attendevamo ovazioni sia dopo la romanza di sortita, sia dopo la barcarola. Invece il primo applauso a scena aperta è arrivato solo all’inizio del second’atto, dopo l’aria d’Amelia. Il soprano Kristin Lewis non aveva granché figurato nell’antro d’Ulrica, ma poi con disinvoltura, con tenacia tutta statunitense e con l’attentissimo sostegno della direzione d’orchestra, ha saputo superare alcuni momenti precari e anche porgere con felice espressione non poche frasi; caratteristico, peraltro, il rilevante ingrossarsi della voce nel registro basso.
Un solido “baritono verdiano di tradizione” ci è apparso il bulgaro Vladimir Stoyanov, interprete di Renato: senza sbracature di sorta e con un colore uniforme ha portato bene a termine i suoi due assolo e ha partecipato ai pezzi d’insieme con disciplinata “diversità”, sottolineata anche dal costume. Lodevole la Ulrica del mezzosoprano Silvia Beltrami, il cui «percorso artistico pone basi solide nel bel canto»: infatti l’emissione è sempre sicura e non forzata; molto significativa, quindi, la presenza nel grande concertato che chiude il prim’atto.
Del tutto positive le prove di Simon Lim come Samuel e di Mattia Denti come Tom; un Silvano di lusso quello di Walter Corrò. Hanno cantato con corretta efficacia le loro brevi frasi Emanuele Giannino, Giudice e Roberto Menegazzo, Servo d’Amelia
Insieme a Meli, l’artista più celebre della locandina è il direttore musicale Myung-Whun Chung, prediletto dall’Orchestra del Teatro La Fenice che sotto la sua guida estremamente attenta ma non mai prevaricante ha confermato in questa recita inaugurale la propria splendida condizione: ci è parsa veramente impeccabile in ogni reparto, con pienezza e calore di suono. I tempi staccati dal direttore non sono molto stretti, ma l’esecuzione permane costantemente serrata, seppure talvolta priva di quelle folgoranti e vertiginose accensioni che possono distinguere tra tutte quest’opera verdiana, innervata di sottili equilibri tra leggerezza, presentimenti di morte e solitudine dei personaggi.
Ottimo il Coro del Teatro la Fenice, preparato e diretto come sempre da Claudio Marino Moretti; opportunamente ripristinata la presenza delle voci bianche nella scena dell’antro d’Ulrica, con la sicura partecipazione dei Piccoli cantori veneziani di Diana D’Alessio.
Pubblico folto, anche se con qualche vuoto in platea come "buona" tradizione delle prime fenicee. Palesi intenzioni d’eleganza, ma anche, qui e là, troppa voglia d’anticipare l’inizio del Carnevale rispetto al tradizionale 26 dicembre…
Alla fine, applausi senza dissensi per tutti, con ovvie e meritate punte in più per il Maestro, per Francesco Meli e, sopra tutti, per Serena Gamberoni. Confidiamo che lo spettacolo possa maturare nelle quattro repliche previste sino a domenica 3 dicembre e inaugurare una fase di maggior frequentazione del capolavoro di Verdi in Laguna.
La recensione si riferisce alla prémière del 24 novembre 2017.
Vittorio Mascherpa