Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung op.49 di Viktor Ullmann sul libretto di Peter Kien | |
Nicolò Ceriani | Kaiser Overall |
Hektor Leka | Der Lautsprecher |
Karina Oganjan | Bubikopf, ein Soldat |
Francesco Paccorini | Harlekin |
Giuliano Pelizon | Der Tod |
Martina Rinaldi | Der Trommler |
Dax Velenich | Ein Soldat |
Regia | Lino Marrazzo |
Scene | Endri Kusturi |
Luci | Samuele Orlando |
Maestro Collaboratore | Pierpaolo Levi |
Direttore | Davide Casali |
Orchestra Abimà | |
Prima di cominciare la recensione dell’allestimento dell’opera lirica Der Kaiser von Atlantis (oder Die Tod-Verweigerung) di Viktor Ullmann su libretto di Peter Kien, credo sia indispensabile rispondere a un paio di domande.
La prima è “cos’è la musica concentrazionaria”?
In modo molto sintetico si può rispondere che è quella musica che è espressione della creatività in condizioni estreme, a dispetto delle restrizioni fisiche, della violenza anche psicologica, degli stenti. La musica come ultima espressione della dignità umana. E credo sia impossibile anche solo immaginare condizioni più estreme di quelle di un campo di concentramento. Nello specifico, quello di Theresienstadt, piccola località rurale nei pressi di Praga. Qui fu deportato Ullmann nel 1942, prima di essere poi spostato ad Auschwitz dove fu assassinato in una camera a gas, nel 1944.
Theresienstatd (Terezín) ha costituito una delle più grandi e tristemente famose mistificazioni del regime nazista nei confronti della comunità internazionale, perché questo lager fu fatto passare per una specie di “ghetto felice” o “città degli artisti”.
Nel 1944 un’ispezione della Croce Rossa non diede esiti negativi, perché l’amministrazione del campo riuscì in poco tempo a trasformare l’orribile luogo di morte e orrore in una virtuale cittadina modello, in cui addirittura si poté assistere all’esecuzione dell’opera Brundibar, scritta dal compositore ceco Hans Krása.
La seconda domanda è “cos’è la Risiera di San Sabba”?
La Risiera era un lager nazista – dotato di forno crematorio – che si trova a Trieste e dal 1965 è Monumento Nazionale.
L’idea – patrocinata tra gli altri dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dalla Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste – era di allestire l’opera di Ullmann negli spazi della Risiera, per dare cruda concretezza alla conoscenza della Shoah attraverso l’Arte e la Cultura. E ce n’è bisogno, in tempi in cui subdolamente l'antisemitismo e il negazionismo dell’Olocausto – come un mefitico fiume carsico - rialza subdolamente la testa nei luoghi più impensati e nelle forme più sfuggenti.
Ne abbiamo conferma ogni giorno.
Purtroppo la variabilità del tempo meteorologico ha costretto gli organizzatori – immagino con quali affanni - a spostare la rappresentazione al Teatro Verdi di Muggia, cittadina a pochi chilometri da Trieste. Ma, lo anticipo subito, il 2 ottobre prossimo si dovrebbe recuperare la sede originale.
Ieri, nonostante il cambio di programma, il Verdi di Muggia era letteralmente gremito di spettatori e un plauso va all’amministrazione comunale muggesana che è stata pronta a fornire la disponibilità della sala in tempi brevissimi.
Nell’esaustivo libretto di sala, a cura di Alessandro Carrieri, il direttore Davide Casali sostiene – a ragione – che i compositori come Ullmann sono stati uccisi due volte: la prima dai nazisti e la seconda per l’oblio in cui è caduto il loro lavoro. Quest’opera, per esempio, è stata eseguita raramente e addirittura solo nel 1975, in Olanda, c’è stata la prima rappresentazione.
L’opera è strutturata in quattro quadri con un prologo, durante il quale sono presentati i personaggi e i Leitmotiv che li contraddistinguono, e un epilogo.
La trama si regge su di una specie di ossimoro: La Morte si rifiuta di uccidere. Tutto tornerà alla normalità solo quando il Kaiser acconsentirà a essere lui stesso la prima vittima di un nuovo corso che ripristinerà l’ordine naturale dell’esistenza.
Si tratta ovviamente di una grande metafora o allegoria, in cui la figura dell’Imperatore rappresenta chiaramente Hitler.
La regia di Lino Marrazzo è scabra, minimalista, ma non certo sciatta e le semplici scenografie di Endri Kosturi sono essenziali ma ben valorizzate dall’impianto luci di Samuele Orlando. Gli artisti sono tutti disinvolti sul palco e risultano efficaci nella caratterizzazione lunare dei singoli personaggi.
Probabilmente l’esito complessivo dello spettacolo ha risentito della sostanziale differenza di spazi tra la location originaria e l’angusta sistemazione del piccolo palcoscenico del Teatro Verdi, e a maggior ragione perciò credo che per una valutazione più completa sia indispensabile vedere l’allestimento alla Risiera.
Dal punto di vista strettamente musicale sono evidenti – e non potrebbe essere diversamente – le influenze di molti dei più famosi musicisti del Novecento: da Schönberg, del quale Ullmann fu discepolo, a Mahler. Su tutti però troneggia lo stile compositivo espressionista e lo spirito marcatamente satirico e sarcastico di Kurt Weill.
I cantanti sono chiamati a un cimento impegnativo, in quanto costretti a un continuo e teso declamato che solo in alcuni momenti – penso in particolare al duetto tra il Soldato e Bubikopf – si apre a moderati sprazzi melodici.
In questo contesto la prestazione dell’Orchestra Abimà, diretta con passione e coinvolgimento emotivo da Davide Casali è stata esemplare.
La compagnia di canto è risultata omogenea e tutti hanno interpretato in modo convincente i loro caratteri.
Qualche sbavatura di pura pertinenza vociologica non ha certo inficiato il risultato artistico complessivo, che mi è sembrato particolarmente rilevante nelle prove di Nicolò Ceriani (Kaiser), Giuliano Pelizon (Der Tod) e Dax Velenich (Ein Soldat).
Comunque meritevoli di elogio tutti gli altri cantanti: Karina Oganjan (Bubikopf), Francesco Paccorini (Harlekin), Martina Rinaldi (Der Trommler) e Hektor Leka (Der Lautsprecher).
Il pubblico, come ho detto all’inizio, ha affollato il teatro e manifestato grande entusiasmo per tutti, oltre che un’evidente soddisfazione per aver assistito a una serata di rilevante valore culturale e civile.
Segnalo inoltre che, meritoriamente, l'ingresso era gratuito.
Paolo Bullo