Otello | Aleksandrs Antonenko |
Desdemona | Sonya Yoncheva |
Jago | Zeljko Lucic |
Cassio | Dimitri Pittas |
Lodovico | Gunther Groissbock |
Emilia | Jennifer Johnson Caro |
Montano | Jeff Mattsey |
Roderigo | Chad Shelton |
Regia | Bartlett Sher |
Scene | Es Devlin |
Luci | Donald Holder |
Costumi | Catherine Zuber |
Proiezioni | Luke Halls |
Direttore | Yannick Nézet-Séguin |
Maestro del Coro | Donald Palumbo |
The Metropolitan Opera House Orchestra and Chorus |
A New York non si usano i programmi di sala, per lo meno non quelli che intendiamo in Europa, in genere acquistati ai bookshop o presso appositi banchi e che - se ben realizzati - contengono trama, libretto, storia esecutiva, note di regia, discografia, interviste, monografie e altro. Nei teatri newyorkesi e in molte altre città statunitensi per qualsiasi rappresentazione (opera, concerto, dramma, musical) si usano invece i cosiddetti “playbill” - piccole riviste che contengono il cast e alcune informazioni sullo spettacolo, assieme a pubblicità varie, distribuite gratuitamente all'ingresso in sala - pratici, ma poco “collezionabili”, anche perché piuttosto ripetitivi, visto che la copertina e parte dei contenuti restano gli stessi per lunghi periodi.
Il Met sceglie periodicamente una copertina di queste tradizionali riviste che richiami una delle produzioni in corso e uno o più interpreti della stessa. Una lunga premessa per riferire come (pur in concomitanza con le esibizioni di nomi come Levine, Radvanovsky, Westbroek, Netrebko, Alvarez, Lindstrom ed altre star in scena ad ottobre) a New York il faccione del tenore Aleksandrs Antonenko, protagonista di Otello, stazionasse in copertina su tutti i playbill distribuiti nel periodo, così come (tanto per fare un esempio) anni fa c'era la coppia Dessay-Florez in occasione delle esecuzioni della celebrata “Fille”.
Stella tra le stelle o nome ancora da promuovere e consolidare nel firmamento lirico? Come che sia, a prima vista la scelta appare un po' bizzarra per un italiano in visita a Manhattan, visti i recenti trascorsi di Antonenko alla Scala nella Turandot trasmessa in diretta tv, per la quale è stato oggetto di più di una (giustificata) critica.
Inevitabile, quindi, il porsi all'ascolto con qualche timore in una parte più lunga e complessa di Calaf, anche se Otello è ruolo in cui il tenore lettone si è cimentato praticamente sin dall'inizio della carriera internazionale, anche in produzioni importanti, come quella che Muti diresse a Salisburgo nel 2008.
È quindi un sollievo scoprire che Otello conviene a tutt'oggi ad Antonenko assai più di Calaf. Dopo un “Esultate!” piuttosto guardingo, ma non malvagio, un “Abbasso le spade” incisivo e veemente quale si conviene e un duetto d'amore con Desdemona in cui riaffiorano gran parte delle magagne ascoltate a Milano (con i brutti suoni di una voce che sembra restia a piegarsi al canto estatico che il brano richiede), nel resto dell'esecuzione il tenore viene a capo con una certa sicurezza della parte, sia nei passaggi più tesi e drammatici, che i quelli più lirici come “Dio, mi potevi scagliar” o “Niun mi tema”, dove si avverte lo sforzo di costruire un personaggio non basato sul puro istinto belluino. La voce è sempre ampia, potente, naturalmente scura, anche se l'emissione non è il massimo della fluidità. Il fraseggio non sarà un portento di finezza, ma comunque adeguato e la presenza scenica un po' monolitica, ma più che dignitosa.
Zeljko Lucic dal canto suo, sceglie, per volontà propria, o perché sollecitato dalla sensibilità del direttore, o perché costretto da un certo affaticamento dei mezzi dopo anni di carriera assai intensa nel repertorio baritonale più pesante, di porsi in contrasto espressivo con tale Otello, creando uno Jago tutto giocato sulla sottigliezza degli accenti, con un canto dalla dinamica quasi costantemente mantenuta sul piano e pianissimo, che si spinge sul forte solo quando è assolutamente necessario.
Un sussurro maligno può essere più raggelante di un ghigno. Così, tra melliflue mezze voci e sottile senso della parola scenica, il baritono serbo crea un personaggio molto più interessante e temibile di tante impersonificazioni ringhianti o gridanti, anche del celebrato passato, che si impone nel corso della recita, dopo un inizio vocalmente un po' (troppo) sotto tono.
Il personaggio di Desdemona è quello, tra i tre principali, che consente meno varietà espressive, risolvendosi per buona parte nel canto. In questo caso il canto è di quelli che si impongono senza riserve. Della bulgara Sonya Yoncheva si ammira la freschezza e pienezza dei mezzi: bella presenza scenica, interpretazione nel solco della tradizione ma che fa intravedere una buona personalità, voce pienamente lirica, luminosa, omogenea in tutti i registri. Se a ciò si aggiungono legato, passaggio superiore e linea di canto immacolati ne vien fuori un soprano che, per quanto fa ascoltare in questa produzione, sarebbe sorprendente non vedere nei cartelloni principali dei maggiori teatri del mondo nei prossimi anni. Peraltro tanta facilità esecutiva, a voler essere incontentabili, farebbe desiderare un maggior ricorso alle mezze voci.
Di buon livello anche il Coro del Met, che pare migliorare di anno in anno, e le parti minori, dove si mette in luce l'Emilia di Jennifer Johnson Cano. Adeguati anche il Cassio di Dimitri Pittas, il Montano di Jeff Mattsey, il Roderigo di Chad Shelton e l'Araldo di Tyler Duncan, mentre Günther Groissböck - nel cast del Tannhäuser in scena negli stessi giorni come Hermann - è un Lodovico di lusso.
Alla complessiva riuscita dello spettacolo, che riceve consensi per tutti i protagonisti da parte del pubblico newyorkese, ha un ruolo essenziale la bacchetta di Yannick Nézet-Séguin, che dimostra una particolare affinità con Otello, offrendone una lettura ricca di colori, precisa, teatrale, varia nelle dinamiche, dove la brillantezza orchestrale della compagine del Met - che ripaga l'entusiasmo del podio con un'ottima prestazione - non diventa mai frastuono. La sensibilità e la tecnica impeccabile del direttore canadese mettono in evidenza la ricchezza della partitura verdiana, che diventa “trasparente”, quasi come le scene concepite da Es Devlin per l'intrigante spettacolo di Bartlett Sher.
In equilibrio tra la tradizione dei vecchi spettacoli del Met e certe messe in scena un po' “estreme” (per New York) volute dal nuovo corso di Peter Welb, il regista Tony Award a Broadway per il musical revival “South Pacific” concepisce questo allestimento in termini che oscillano tra il minimalismo nel design degli elementi scenici (che si spostano componendo gli ambienti dei vari atti) e la grandiosità delle dimensioni degli stessi, costruiti in materiale trasparente che richiama i mobili Kartell e che rende possibili i complessi giochi di luce di Donald Holder, oltre che consentire agli interpreti di muoversi "a vista", salendo e scendendo le scale contenute nelle pareti stesse. Gli originali costumi di Catherine Zuber contribuiscono all'elegante insieme, che non disdegna l'uso della tecnologia e di sofisticate proiezioni nella scena iniziale della tempesta. Otello non è moro, cosa che negli Stati Uniti è stata oggetto di discussione (anche in relazione ai presunti contenuti razzisti del libretto), ma che ad un occhio europeo mi pare particolare di poco conto. Costumi più o meno ottocenteschi (idem). Mare e Venezia appena suggeriti, ma convincenti.
La recensione si riferisce alla recita del 14 ottobre 2015.
Fabrizio Moschini