Otello | Marco Berti |
Desdemona | Lianna Haroutounian |
Iago | Roberto Frontali |
Cassio | Alessandro Liberatore |
Lodovico | Seung Pil Choi |
Montano | Ventceslav Anastasov |
Emilia | Anna Malavasi |
Roderigo | Antonello Ceron |
Araldo | Giuseppe Scarico |
Il clown / movimenti mimici | Jean Méningue |
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo | |
Direttore | Nicola Luisotti |
Maestro del Coro | Salvatore Caputo |
Maestro del Coro di Voci Bianche | Stefania Rinaldi |
Regia | Henning Brockhaus (ripresa da Valentina Escobar) |
Scene | Nicola Rubertelli |
Costumi | Patricia Toffolutti |
Luci | Alessandro Carletti |
Otello, penultimo capolavoro di Giuseppe Verdi, ha una lunga tradizione esecutiva al San Carlo, dove arrivò nel 1888, con un successo alquanto tiepido come riportano le cronache. Le cose andarono meglio già a partire dall’anno successivo, con Francesco Tamagno quale protagonista, e la storia delle rappresentazioni partenopee dell'opera si ha con Mario del Monaco, che incarnò il Moro di Venezia numerosissime volte dal 1955 al 1972.
Stavolta ad essere protagonista è stato Marco Berti, con una prestazione che è diventata sempre più convincente nel corso della serata. Se l’Esultate iniziale faceva percepire più di un'incertezza, il tenore ha trovato con tenacia una sua sicurezza vocale già a partire dal duetto con Jago, fino a un Dio, mi potevi scagliar veramente ben eseguito così come tutta la scena finale. Nel complesso il tenore ha ben espresso il crescendo della febbrile malattia del protagonista, senza dargli un carattere violento, ma esprimendo anzi la debolezza che lo rende facile preda dell'insidioso antagonista.
Lianna Haroutounian è stata una buona protagonista femminile. La giovinezza del soprano armeno è di supporto all'immagine scenica di una Desdemona smarrita e impotente, ma ciò non toglie che l'interprete, seppure mostri una sua sensibilità, debba ancora maturare per fare veramente "suo" il personaggio. Dal punto di vista strettamente musicale, invece, le qualità vocali della Haroutounian sono di prim’ordine per bellezza e pienezza del timbro, sempre omogeneo lungo tutta la tessitura, anche se sarebbe auspicabile una maggiore fluidità nell’emissione specialmente nelle linee ascendenti. La grande scena finale è stata eseguita molto bene, a prova dell’impegno che la cantante ha messo nella performance, ma i tempi un po’ troppo lenti scelti da Luisotti non sembrano averla messa a proprio agio.
Roberto Frontali ha reso il suo Jago in modo asciutto e senza calcare la mano con effetti di facile presa. Grazie all’ottima forma vocale, il baritono ha giocato con naturalezza sugli accenti e sulla forza interpretativa nel disegnare un carattere inizialmente insidioso e poi vero motore dell'azione, tremendo quando gode della sua malvagità ed esprime il suo nichilismo.
Bene in parte il Cassio di Alessandro Liberatore e Anna Malavasi, un’Emilia vocalmente a posto e che nel breve ma indispensabile intervento nel finale si fa apprezzare anche per forza interpretativa.
Incisivo il Lodovico di Seung Pil Choi, completano con onore il cast Ventceslav Anastasov (Montano), Antonello Ceron (Roderigo) e l’Araldo di Giuseppe Scarico.
Attento alle ragioni orchestrali come a quelle del palcoscenico, Nicola Luisotti ha diretto l’opera con grande scrupolo, esaltando la ricchezza strumentale della partitura e cercando di esprimerne tutti gli umori e i colori con forza espressiva. C’è riuscito grazie ad un’Orchestra del San Carlo in buona forma, che ha offerto una prestazione di tutto rispetto per compattezza e trasparenza, anche nei momenti di maggiore potenza sonora, fatta salva qualche intemperanza degli ottoni all’inizio della serata.
Ottima per forza interpretativa e omogeneità del suono la prova del Coro diretto da Salvatore Caputo i cui elementi una volta tanto hanno mostrato anche un certo impegno recitativo, e apprezzabile il Coro di Voci bianche diretto da Stefania Rinaldi.
La regia di Henning Brockhaus (ripresa da Valentina Escobar) era molto attesa, ma nel complesso non ha impressionato particolarmente. Arricchita dal gioco di luci di Alessandro Carletti, la scena di Nicola Rubertelli (atemporale, solo i costumi di Patricia Toffolutti hanno dato identità storica allo spettacolo) era costituita da giganteschi pannelli semoventi di un grigio opprimente.
La recitazione dei vari personaggi scorreva in modo abbastanza tradizionale, senza particolari guizzi di fantasia. Molti i simboli di non immediata comprensione fin dall’inizio dello spettacolo quando, prima che l’orchestra attacchi, Jago strappa con violenza un enorme telo sospeso a tutta scena, che riproduce un particolare del Giardino delle delizie di Hyeronimus Bosch, e srotola poi un velo bianco che avvolge Desdemona (lo stesso col quale Otello la strangolerà invece di soffocarla col cuscino). Simbolici anche i pochi oggetti d’arredo: fra essi, un pianoforte divelto su un angolo del palcoscenico per l’intera ultima scena (davanti al quale per alcuni minuti resta un pensieroso Otello), e una sorta di feticcio, forse una Madonna, infranto da Jago che lo scaglia rabbiosamente sul pavimento durante il suo Credo e ricomposto amorevolmente da Desdemona al termine dell’Ave Maria. Nota distintiva dell’allestimento è stata la presenza in scena di un gruppo di mimi-clown (a loro capo Jean Méningue) impegnati in varie controscene di dubbio significato, fatta comunque salva la bravura degli attori in scena.
San Carlo pienissimo di turisti, si sentivano parlare vari dialetti d’Italia e lingue straniere. Pubblico silenzioso e concentrato, Otello non è opera che si presta ad applausi a scena aperta. Al termine, vivo successo sia pure senza entusiasmi.
Bruno Tredicine