Mimì | Eleonora Buratto |
Rodolfo | Jean-François Borras |
Musetta | Francesca Dotto |
Marcello | Mario Cassi |
Schaunard | Leon Kim |
Colline | Fabrizio Beggi |
Benoît / Alcindoro | Matteo Ferrara |
Parpignol | Stefano Pisani |
Direttore | Stefano Ranzani |
Regia | Mario Pontiggia |
Scene e Costumi | Francesco Zito |
Luci | Bruno Ciulli |
Maestro del Coro | Marco Faelli |
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo | |
Allestimento del Teatro Massimo di Palermo |
Assistendo alla prima della Bohème in scena al San Carlo ci sono venute in mente le recentissime piccole polemiche (più mediatiche che sostanziali, come testimoniano le recensioni di OperaClick) a proposito della Carmen dell’Opera di Firenze e dell’opportunità di modificare la drammaturgia di un’opera. Sì, perché questa edizione del capolavoro pucciniano, nata nel 2015 per il Massimo di Palermo, avrebbe accontentato anche i più fanatici sostenitori dell’intoccabilità del libretto.
La messinscena a firma di Mario Pontiggia ci mostra La bohème come ognuno la immagina, ma per fortuna e al contrario di come a volte succede, tradizionale stavolta non fa il paio con stanco, sonnolento o noioso. Qui no, la regia è stata molto attenta ai dettagli, vivace, e capace di infondere calore e autenticità ai vari personaggi mantenendo (impresa difficile) un’impostazione a suo modo sobria e asciutta, senza indulgere verso il patetismo d’accatto.
Certo non tutto è stato perfetto, ad esempio il secondo quadro è stato il meno soddisfacente. Qui Pontiggia è sembrato “perdersi” un po’ nella complessa gestione delle masse con un’eccessiva staticità di coro e bambini: financo le mamme che rimproveravano i pargoli (una lode al Coro di Voci bianche del San Carlo diretto da Stefania Rinaldi) lo facevano da ferme. In più sono parsi incongruenti sia i camerieri del caffè che quasi diventavano i boys di Musetta durante il suo numero sia le signorine che chissà perché agitavano a passo di danza i cartelli con la scritta “Momus”.
Però nel corso della serata si sono anche viste tante piccole finezze, come Mimi che confeziona lestamente un fiore di carta mentre si duole che I fior ch’io faccio ahimè non hanno odor, e lo dona a Rodolfo quasi a scusarsi per essere venuta fuori d’ora a importunare, oppure la veloce e muta apparizione di Benoît anche all'inizio del quarto atto sempre sventolando la carta che dimostra gli affitti non pagati e cacciato fuori una volta di più dai giovani scatenati. Insomma nel complesso uno spettacolo che ha mostrato il suo valore teatrale, accurato e preparato con gusto e attenzione.
Francesco Zito ha disegnato le piacevoli scene e i costumi, belli ma dai colori un po’ troppo uniformi nell’affollatissimo secondo atto, tanto che a tratti diventava anche difficile rintracciare i protagonisti. Con un piccolo arbitrio ha spostato l’azione all'inizio del '900 come si capiva dagli abiti delle signore o dalla struttura del caffè Momus. Notevole la suggestione della Barriera d’enfer dove anche grazie alle luci di Bruno Ciulli il gelo dell’alba invernale arrivava fino al pubblico, a riflesso dello sgomento dei giovani protagonisti.
Vero asso nella manica di questa produzione è stata Eleonora Buratto, una Mimì esemplare che fin dal suo ingresso ha riempito la sala con la sua voce ampia, avvolgente, omogenea, vero soprano lirico ma dall'ammirevole volume. La prestazione del soprano mantovano è stata senza fronzoli e tutta "dentro" la musica: senza artifici di fraseggio e senza calcare la mano sul sentimentalismo degli accenti ha trovato il modo di rivestire ogni nota del colore giusto per costruire un ritratto minuzioso del personaggio, vivo e palpitante. Vagamente vezzosa e splendente in Mi chiamano Mimì, dalle screziature cupe nel terzetto con Rodolfo e Marcello e improvvisamente maturata in Donde lieta uscì, quando per la prima volta la gioventù non basta più a mascherare che la vita non è eterna.
Il tenore francese Jean François Borras si è rivelato interprete sensibile, mettendo passione ed entusiasmo nel tratteggiare un Rodolfo credibile. Borras ha usato al meglio i propri mezzi di tenore lirico, la voce era ferma e omogenea, ma anche troppo leggera, e non ‘bucava’ il palcoscenico.
Molto brava Francesca Dotto che con voce sicura dai bei toni cangianti ha prima espresso il lato frivolo di Musetta scatenandosi in Quando men vo, ma poi ha dimostrato che la fanciulla ha ben altra anima nei toni drammatici del finale. Con naturalezza di fraseggio Mario Cassi è stato un Marcello sanguigno e di cuore mentre Fabrizio Beggi ha messo in campo per il suo Colline dei mezzi vocali di tutto rispetto, fino ad una Vecchia zimarra cesellata in modo ammirevole.
A completare il quartetto degli amici l'ottimo Leon Kim, uno Schaunard filosofo spiritoso e amico di tutti, mentre Matteo Ferrara, ha caratterizzato al meglio i suoi due personaggi essendosi diviso, com'è comune usanza, tra Benoît e Alcindoro.
Il Coro del San Carlo diretto da Marco Faelli ha ben figurato conferendo spessore vocale e creando contrasti dinamici a tutto il quadro del Quartiere Latino. Stefano Ranzani nel complesso ha diretto con mano sicura e tempi spediti. Però si sono avvertiti anche parecchi squilibri fra le sezioni orchestrali, disuguaglianze di volume e un suono ruvido, con poche morbidezze e sfumature che ha fatto perdere molti dei valori musicali dell'opera. Un'interpretazione orchestrale un po' schematica e rigida poco flessibile nel piegarsi alle tante nuances, ai milioni di colori della partitura.
San Carlo gremitissimo, e questo è un dato positivo dato che tutte le repliche di questa Bohème sono fuori abbonamento. Moltissimi studenti delle scuole superiori, probabilmente per qualche accordo col teatro, che però hanno seguito con attenzione l’opera. Se anche solo per qualcuno di loro si accenderà l’amore per l’opera, ci sarà solo da compiacersi.
La recensione si riferisce alla rappresentazione del giorno 11 gennaio 2018.
Bruno Tredicine