Didone | Ivana Srbljan |
Belinda | Moranda Plese |
Seconda donna | Ana Majdak |
Enea | Marko Fortunato |
La maga | Sonja Runje |
Prima incantatrice | Moranda Plese |
Seconda incantatrice | Iskra Stanojevic |
Lo spirito | Franko Klisovic |
Un marinaio | Sasa Matovina |
Direttore | Tomislav Facini |
Regia | Mirva Koivukangas |
Scene | Paola Lugaric |
Costumi | Manuela Paladin Sabanovic |
Movimenti scenici | Oksu Heiskanen |
Luci | Dalibor Fugosic |
Maestro del coro | Nicoletta Olivieri |
Orchestra e coro del Teatro Nazionale Ivan Zajc di Fiume |
Il Teatro nazionale dell’Opera di Fiume ha il raro dono di non essere mai banale, nelle scelte di repertorio ma soprattutto nella realizzazione dei suoi progetti. Per la seconda volta nella storia del teatro (dalla fondazione a oggi) il sovrintendente Marin Blažević ha portato la musica antica su questo palcoscenico e all'attenzione di un pubblico fondamentalmente neofita. Dopo il grande successo di un'originale, validissima produzione del Giulio Cesare in Egitto di Händel, il capitolo ormai aperto dell'opera barocca prosegue con il Dido and Aeneas di Henry Purcell, capolavoro “tascabile” del Seicento inglese.
Scritta intorno al 1689 per il convitto del coreografo e danzatore Josias Priest, l'opera della durata di circa un'ora era destinata all'esecuzione delle giovani gentildonne (con qualche integrazione nei ruoli maschili), come parte della loro educazione. Il libretto di Nahum Tate offre spunti morali adatti al contesto della rappresentazione e qualche concessione utile agli effetti musicali e scenici (le streghe che si sostituiscono al meno “performativo” Fato) e Purcell dal canto suo non punta su virtuosismi tecnici, ma crea una successione di situazioni solistiche e corali molto varia e accattivante, facendo confluire la propria ispirazione nell'ambito dell'organico disponibile.
Il Teatro di Fiume mantiene l'organico orchestrale adeguatamente ridotto, integrando gli archi soltanto con arpa, tiorba e cembalo, invita il giovane direttore croato con esperienze di musica antica Tomislav Fačini, chiede a orchestrali e solisti della compagnia stabile di lasciarsi condurre sui percorsi per loro inconsueti del barocco, si ispira alle pratiche antiche convincendo il coro a eseguire coreografie, chiede a una regista donna di trovare la chiave del dolore tutto al femminile della tragica vicenda della regina di Cartagine. Ne deriva una produzione con qualche insicurezza filologica e scenica, ma con molti più pregi nella dedizione al progetto, nelle idee originali, nella chiarezza del messaggio, musicale e registico.
La maggior parte degli interpreti non ha consuetudine con questo genere musicale, ma tutti colgono l’intenzione del direttore Fačini. L’orchestra tende ad esprimersi con archi di frase ampi e armoniosi, arrotondamenti del suono e dei necessari contrasti che renderebbero il tessuto più “baroccamente” smagliante, ma la struttura dell’esecuzione nel complesso va nella direzione giusta e dipinge con partecipazione i colori che Purcell attribuisce al languore regale, alle suggestioni di streghe beffarde ed echi di furie, ai suoni della caccia e alle canzoni di marinai dal cuore instabile.
Sul palco Ivana Srbljan nei panni di Didone controlla e limita adeguatamente i vibrati, accompagna con efficacia il gesto all’espressione e conferma una buona presenza scenica.
Marko Fortunato è un Enea corretto e distaccato nella voce quanto nelle esigenze registiche, mentre fa faville la Maga di Sonja Runje, cantante dal temperamento esuberante che qui mette la voce al servizio della caratterizzazione del personaggio, modulandola nelle asprezze caricaturali della voce nasale, esplodendo nella furia delle maledizioni che porteranno alla rovina Cartagine e la sua regina.
Le fanno degnamente corteggio le streghe di Iskra Stanojević e Morana Pleše, che nel suo doppio ruolo passa agilmente dalla colorita perfidia alle tenere cure della fedele Belinda. Tra i ruoli di minore ampiezza va citato almeno lo Spirito del controtenore Franko Klisović, il cui breve intervento ha avuto il pregio di farsi notare per pulizia e musicalità della conduzione.
La vicenda si svolge all’interno di un faro, sulle sponde di quel mare che ha portato Enea a Cartagine e che ha visto la sua fatale partenza che spingerà Didone alla morte volontaria. È un faro che dovrebbe mettere in guardia gli incauti amanti, che non riescono tuttavia ad evitare gli scogli. Le scene di Paola Lugarić vengono abitate dai costumi fantasiosi di Manuela Paladin Šabanović, che nel coro fa convivere marinai dalle magliette a righe, creature stregonesche, dame di corte con vistose parrucche, riferimenti alla caccia di diabolici animali, mentre le streghe sfoggiano acconciature che vanno ricercate nell'iconografia archeologica. Didone indossa la rivisitazione di un fluttuante peplo bianco, le cui lunghe maniche lo trasformano all'occorrenza in camicia di forza. Non è follia quella della regina, ma costrizione: le sue braccia vengono immobilizzate da cortigiani e da Enea stesso, i suoi occhi bendati, così come la bocca. La regista finlandese Mirva Koivukangas ha voluto parlare attraverso lei delle pressioni alle quali le donne sono sottoposte oggi come ieri, dei doveri, delle troppe esigenze che si riversano sulle loro spalle, anche della loro difficoltà di sciogliere le catene che le costringono, dell’incapacità di vedere e dell’impossibilità di parlare. Anche se la regia giustifica le fantasiose soluzioni facendo credere che tutta la vicenda sia stata in fondo soltanto un incubo di Didone, la realtà di questo brutto sogno rimane molto presente. La corona che pesa sul suo capo la opprime come simbolo di un potere che non dà libertà, ma impone scelte non volute. La morte, reale o immaginata, diventa alla fine una liberazione, simboleggiata dalla cessione del simbolo opprimente della corona che è stata anche una delle cause del suo sfortunato legame con Enea, che in questa regia non rivela la sua parte sentimentale, ma soltanto l’imposizione di un accordo politico voluto dal popolo. Nell’opera Didone stessa rifiuta il ripensamento di Enea, considerando segno di ipocrisia il suo solo pensiero di seguire il comando degli dei (“I nobili cuori rovinan se stessi, e fuggono il rimedio che più bramano”, canta il coro), ma qui la partenza di Enea è desiderata fin dall’inizio, dato che l’eroe diventa un male collaterale di fronte alla difficoltà del vivere, da regina e da donna.
La recensione si riferisce alla recita del 23 febbraio 2018.
Rossana Paliaga