Léonor de Guzaman | Veronica Simeoni |
Fernand | Anton Rositskiy |
Alphonse XI | Vito Priante |
Balthazar | Ugo Guagliardo |
Don Gaspar | Manuel Amati |
Inès | Francesca Longari |
Un Seigneur | Leonardo Sgroi |
Direttore | Fabio Luisi |
Regia | Ariel García Valdés |
Ripresa da | Derek Gimpel |
Scene e costumi | Jean-Pierre Vergier |
Luci | Dominique Borrini |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino |
Nel recensire questa Favorite, andata in scena per la prima volta sulle scene fiorentine nella versione originale francese, Fabrizio Moschini su queste stesse pagine giustamente afferma trattarsi di un grand-opéra atipico, soprattutto a causa del limitato rilievo della cornice storica e spettacolare, in favore del dramma intimo dei protagonisti. Fabio Luisi, responsabile musicale di questa produzione, in un’intervista riportata sul programma di sala va oltre, arrivando a negare del tutto l’appartenza del lavoro donizettiano al genere in questione per dimensioni, assenza dell’elemento storico-politico, evidenza quasi esclusiva delle vicende sentimentali. E, anche in virtù di questa convinzione, il direttore elimina il ballo previsto nel secondo atto. Eppure le suggestioni del grand-opéra si affacciano non di rado nella partitura donizettiana. Vedi innanzitutto la commistione di elementi religiosi ed erotici (caratteristica di opere come La Juive, Robert le Diable, Les Huguenots), poi la presenza massiccia del coro, talvolta assurto a livello di vero e proprio personaggio (vedi terzo atto), la ricchezza dello strumentale e il grande ballo. In particolare Les Huguenots offrono parecchi spunti a La Favorite. Il racconto dell’incontro con l’amata da parte di Fernand all’inizio dell’opera (Un ange, une femme inconnue), ricorda quello di Raoul (Plus blanche que la blanche hermine). Poi l’apertura della seconda scena del primo atto con l’aria di Inès con coro e l’arrivo di Fernand bendato all’isola di Léon, accolto da un consesso femminile, non può non richiamare alla mente l’inizio dell’atto di Chenonceau con simili circostanze, pur se Meyerbeer è assai più elaborato e ricco di dettagli. Lo stesso Alphonse mostra qualche tratto (anche come tipo di vocalità) del Conte di Nevers, per non parlare della vocalità di Balthazar che disegna l’intransigenza religiosa con lo stesso cieco fanatismo di Marcel (e il dedicatario di ambedue i personaggi era Nicolas Levasseur, primo interprete pure di Bertrand in Robert le Diable, Brogni nella Juive e futuro creatore di Zacharie nel Prophète). Simile è anche la scrittura e la tessitura delle due protagoniste femminili, due ruoli prevalentemente centrali, con incursioni in acuto che per Léonor non prevedono però le scalate ai si4 e do5 destinati a Valentine.
Dunque Fabio Luisi, forte delle sue convinzioni, si concentra sulle emozioni e i trasporti dei personaggi con una coerenza e un aplomb ammirevoli. Fin dal Larghetto del preludio ottiene dall’orchestra una patina malinconica dai colori spenti, in cui anche le accensioni hanno un fondo di ineluttabilità, quasi di rassegnazione. Una simile lettura, che trascura di proposito gli aspetti cortigiani dell’opera, taglia le danze, livella i colori, corre il rischio dell’uniformità. Rischio evitato grazie alla ricchezza dinamica, alla varietà ritmica, al perfetto dosaggio delle sonorità che permette alle voci di emergere anche nei momenti più concitati. Ben equilibrato il rapporto tra palcoscenico e orchestra, questa in ottima forma, come del resto il coro diretto da Lorenzo Fratini, chiamato ad un’impegno decisamente superiore agli standard donizettiani. Belle e conformi alle scelte espressive del direttore le parche variazioni, riguardo alle quali Luisi ha impedito con mano ferma eccessivi protagonismi da parte dei cantanti.
C’era curiosità per il debutto fiorentino del giovane Anton Rositskiy, che si era fatto conoscere l’estate scorsa come spericolato (anche troppo) Duca di Lavarenne nella Margherita d’Anjou di Meyerbeer (vedi recensione di Danilo Boaretto). La voce non è di primissima qualità per colore e sonorità. Ha però una buona proiezione ed è sempre udibile anche in un teatro delle dimensioni di quello fiorentino. È inoltre assai estesa in alto: in una variazione a metà del duetto del primo atto con Léonor emette un re4 pieno, sonoro, sicuro (più di altri do e do diesis scritti o interpolati nel corso della serata), ma è capace di spingersi anche più in su; come è capace di dominare impervie frasi di coloratura, cosa che qui non ha avuto modo di poter dimostrare. Il fraseggio è sufficientemente vario e, almeno in quest’opera, appare più singolare nei momenti maggiormente concitati che in quelli estatici, anche a causa di un legato da affinare. Talvolta apre troppo i suoni con effetti non sempre gradevoli (i la3 della cabaletta finale del primo atto alla frase Mon âme s’enivre), ma in definitiva si tratta di un artista da seguire con interesse e curiosità; un artista che se riuscirà a disciplinare maggiormente le sue non comuni doti potrebbe (data anche la sua giovane età) darci qualche bella soddisfazione.
Altra novità della distribuzione in questo 3 marzo la presenza di Vito Priante come Alphonse XI. Anche lui non ha una voce tonitruante, ma sa usare il suo educatissimo strumento con classe. I momenti migliori sono quelli in cui può dispiegare con agio il suo gradevole timbro in frasi distese con belle sfumature ed elegante legato. Assai bella a questo proposito Léonor! Viens, eseguita con abbandono e con i melismi perfettamente dipanati. Decisamente buona pure Pour tant d’amour, resa con morbidezza e la giusta dose di amara ironia, cosa mi ha fatto balenare l’impressione che Priante conosca molto bene l’interpretazione di Bruscantini e se ne sia ispirato con intelligenza. Meno singolari invece i momenti di canto concitato e imperioso.
Per il resto nulla di nuovo nel cast rispetto alla prima.
Veronica Simeoni rende una protagonista dolente, col suo timbro peculiare e delicato, perfettamente conforme alle scelte di Luisi, che cura particolarmente il personaggio con agogiche inedite, lasciando agio alla cantante di ricercare particolari sfumature dinamiche. Anche lei, come Priante, brilla più nei momenti intimi ma arriva un po’ stanca al duetto finale. Per nulla aiutata dalla non regia, che nei momenti cruciali non trova di meglio che farla sedere per terra, fa comunque valere la sua autorevole presenza.
Voce piuttosto gutturale e non ricchissima di armonici quella di Ugo Guagliardo che stenta a imporre il carattere solenne e grandioso della musica scritta per Balthazar.
Francesca Longari (Inès) ha una vocina gradevole e zuccherosa, ma per ascoltarla bisogna arrivare al si bemolle4 della cadenza di Rayons dorés, dato che la tessitura del brano è troppo bassa per lei. Sembra comunque uno degli elementi più interessanti dell’Accademia del Maggio e in ruoli più consoni alle sue caratteristiche potrà far valere le sue qualità.
Dall’Accademia del Maggio proviene anche Manuel Amati dal timbro un poco petulante (cosa che tuttavia non disdice in fondo a Don Gaspar) ma musicalissimo e molto corretto.
Completava la distribuzione Leonardo Sgroi (Un Seigneur).
Punto dolente dello spettacolo la parte visiva a cura di Ariel Garcia-Valdès (regia, in questa occasione ripresa da Derek Gimpel), Jean Pierre Vergier (scene e costumi), Dominique Borrini (Luci). Una messa in scena inutile, prima ancora che brutta, come se il tempo non fosse passato dal secondo dopoguerra ad oggi. Coro schierato come ad un’adunata militare, pose risapute, banali, costumi improbabili. A ciò si aggiungano pause continue per i cambi scena (che in realtà consistevano nello spostare un monolite dalla destra alla sinistra del palcoscenico e viceversa).
Punto dolentissimo il pubblico, la sera del 3 marzo particolarmente indisciplinato (ma anche quello del 22 febbraio non scherzava), tanto che mi è balzato in mente un articolo di Alberto Mattioli sulla stampa che raccontava di un’iniziativa della Fondazione Donizetti di Bergamo, responsabile di un codice di comportamento in teatro, da distribuire al suo pubblico, che prevede, oltre alla raccomandazione di spegnimento dei telefoni cellulari e al divieto di fare foto, anche delle norme che ad ogni persona di buon senso dovrebbero sembrare normali, come tossire con discrezione (invece di fare una gara di potenza con i cantanti), non parlottare e non scartocciare caramelle e bottigliette di plastica durante l’esecuzione. A Firenze ultimamente è in voga un nuovo sport: sobbalzare sulle poltrone fino a provocare fastidiosi scricchiolii, cosa che io, nonostante la mia non irrilevante mole, non sono mai riuscito ad ottenere (ho fatto delle prove). Ma il problema mi sembra stia diventando preoccupante. L’altra sera c’erano momenti di suono in pianissimo (ma non solo) in cui i rumori della sala sopravanzavano la musica con danni rilevanti alla fruizione della serata. Faccio pubblicamente appello al Teatro del Maggio perché possa ispirarsi alla Fondazione Donizetti e prendere rapidi provvedimenti.
Detto pubblico alla fine, improvvisamente risanato (chissà perché appena si accendono le luci la tosse cessa), decretava un calorosissimo successo a questa Favorite.
La recensione si riferisce alla serata del 3 marzo 2018.
Silvano Capecchi