

Ci sono opere che, per continuare il loro cammino, devono legare la loro fortuna ad artisti che s’innamorino di loro e si identifichino col personaggio principale, il quale, protagonista assoluto, ha necessità di interpreti di forte rilievo, in difetto dei quali può accadere che il tutto si sgonfi, come un soufflé i cui ingredienti non siano ben miscelati; mentre invece in presenza di un grande mattatore (e, naturalmente, di un direttore che garantisca quanto meno una dignità esecutiva), una resa anche solo decorosa delle parti che gravitano intorno alla figura centrale, può non intaccare un buon esito finale. Qualche esempio: Adriana Lecouvreur, Medea di Cherubini, Suor Angelica e, appunto, Werther.
Quando il lavoro di Massenet approdò, dopo una lunga gestazione, in prima assoluta a Vienna, il 15 febbraio 1892 (in lingua tedesca), il tenore prescelto fu il trentunenne belga Ernest van Dyck, dal repertorio prevalentemente wagneriano; cantava (o canterà) Lohengrin, Parsifal, Siegmund, Tannhäuser, Tristan, oltre a Sigurd di Reyer, Faust (Berlioz), Des Grieux (Massenet). Poco dopo ebbero luogo rappresentazioni in lingua francese, prima a Ginevra e poi a Parigi, in alcune delle quali si distinse Guillaume Ibos, che frequentava abitualmente Mozart (Don Ottavio), Donizetti (Fernand), Verdi (Il Duca di Mantova), Gounod (Roméo), ma anche Meyerbeer (Vasco de Gama e Raoul) e Wagner (Lohengrin). Dunque due tenori, uno di stampo drammatico e uno più lirico, capace di addolcire e filare i suoni, stando almeno ad un provino della canzone dal terzo atto dal Rigoletto, ma anche generoso negli slanci e in possesso di acuti sicuri. La tradizione che parte da Ibos sembra continuare con Georges Thill, Giuseppe Di Stefano, Alain Vanzo, Nicolai Gedda, Roberto Alagna, cantanti capaci di sottolineare il carattere intimo del ruolo, ma anche di affrontare le frasi più disperate con trasporto e quelle più appassionate col dovuto abbandono. Su questa linea potremmo aggiungere Bergonzi, Domingo, Carreras e Aragall, frequentatori abbastanza occasionali dell’opera, con fraseggio meno interessante e rifinito dei precedenti (o, nel caso di Bergonzi, più professore di canto che personaggio), oltre a Vargas, Álvarez, Villazón. Ci sono stati poi (e ci sono) cantanti dal timbro scuro e dal repertorio drammaticheggiante come Giuseppe Borgatti, Piero Schiavazzi, Aureliano Pertile, Franco Corelli, fino a Jonas Kaufmann. A sé sta il Werther di Giacomo Lauri Volpi del quale esistono le due arie e che non saprei come collocare, stante la particolarità delle sue caratteristiche vocali ed espressive.
Lo strumentale nutrito, quando non invasivo, non ha impedito lo sviluppo di un altro filone costituito da tenori di grazia, lirico leggeri o addirittura leggeri, suggerito dal carattere del personaggio, introverso, sognatore, ripiegato su se stesso, depresso. Si tratta di letture che, nonostante una tessitura contemplante un impegno cospicuo del registro centrale con slanci e frasi arroventate che battono sul passaggio per poi sfogare in acuto (vedi secondo e terzo atto), privilegiano i molti passi richiedenti un fraseggio estremamente sfumato, malinconico, estatico, visionario, intriso di dolore (praticamente tutto il primo e quarto atto, con qualche momento del secondo e del terzo). Ed è questa la categoria che ha forse contato il maggior numero di adepti, da Fernando De Lucia, a Giuseppe Anselmi, Edmond Clément, Tito Schipa, Ivan Kozlovsky, Ferruccio Tagliavini, Cesare Valletti, Agostino Lazzari, Alfredo Kraus, Luigi Alva, Giuseppe Sabbatini, fino all’attuale Juan Diego Flórez.
Il tenore peruviano faceva il suo debutto nel ruolo in forma scenica, dopo aver cantato Werther in forma di concerto a Parigi, al Théâtre des Champs Élysées qualche mese fa. Devo confessare che nutrivo qualche perplessità riguardo a questa presa di ruolo, date le caratteristiche vocali ed espressive dell’artista, anche se alcuni brani, per lui inusuali fino a poco tempo fa, ascoltati il 4 dicembre in un concerto all’Auditorium Manzoni di Bologna, mi avevano sorpreso positivamente. Flórez si trova in quel momento della carriera in cui è necessario fare delle scelte. A 22 anni dal debutto e a quarantatré anni di età, la voce non è cambiata molto. Gli acuti hanno perso un poco di brillantezza e, quando affronta il suo prediletto (finora) repertorio rossiniano, la coloratura non ha più la scioltezza di un tempo, pur rimanendo sempre di livello superiore. Decisamente poco danno insomma, soprattutto rispetto ad altri tenori che si sono dedicati principalmente al repertorio belcantistico e che dopo venti, venticinque anni di carriera hanno mostrato segni di irrevocabile crisi vocale. Ma Flórez sa evidentemente di non poter più competere col se stesso di anni fa e forse è anche alla ricerca di nuovi stimoli artistici, per cui da qualche tempo sta sperimentando nuove vie. Cerca, gradualmente e senza forzare i propri limiti naturali, di dare un poco più di consistenza al registro centrale (con vantaggio del vibrato stretto, sensibilmente ridotto), di trovare nuovi colori e un’espressività più variegata, cosa già notata l’estate scorsa ne La Donna del Lago pesarese. In questi ultimi anni ha inserito in repertorio Les Pêcheurs de perles, Guillaume Tell, Roméo et Juliette, Lucia di Lammermoor, Les Huguenots, non sempre con risultati del tutto convincenti. Tra questi debutti Werther appariva senz’altro tra i più ostici per il tipo di vocalità e lo spessore dello strumentale. Ma fin dall’invocazione alla natura le perplessità svanivano; il dominio dello strumento era superbo, la capacità di sfumare i suoni e di colorire le frasi emozionante; e parliamo di un tenore che si è creato una fama di grande vocalista, ma di interprete non freddo, ma un poco prevedibile. Le soluzioni espressive spiazzano; ci si sarebbe potuto aspettare un Werther un po’ inerte, sentimentale e passivo sognatore, alla maniera di Schipa. Invece il suo è un personaggio estremamente reattivo, poetico, piagato, ma capace di frasi appassionate e di slanci disperati. Se la voce avesse più polpa sarebbe perfetto.
Bisogna dire che il Teatro Comunale di Bologna ha creato le condizioni migliori per il debutto scenico di Flórez. Innanzitutto con la sua ottima acustica; poi ha affidato la direzione musicale a Michele Mariotti al quale è riuscito un piccolo miracolo: sostenere mirabilmente il canto con intensità, levigatezza, poesia, senza mai prevaricare le voci, cosicché non si è persa una nota emessa da ogni elemento del cast. E l’orchestra del Teatro Comunale di Bologna, quando suona col suo maestro, non perde occasione di mostrare tutta la sua dedizione, l’impegno, con risultati, in questo caso, di particolare spicco. Il direttore garantiva poi una mirabile continuità di narrazione, mantenendo sempre viva l’attenzione con scelte agogiche variegate e con grande ricchezza di colori.
Poi come Charlotte era stata scritturata Isabel Leonard, poco o punto presente nei nostri cartelloni. Bellissima donna, ha timbro non prezioso, anzi affetto da un leggero vibrato (che tra l’altro lega alla perfezione con quello di Flórez), ma guidata da un istinto musicale infallibile e da una tecnica sicurissima. La sua è una figura molto meno remissiva del solito, capace di moti di ribellione e più passionale che d’abitudine. Artista che in scena buca il palcoscenico e, pur con gesti misurati e comunque mai plateali, impone sempre la sua presenza con un carisma indiscutibile.
Ma anche il resto della compagnia era complessivamente equilibrato, con una Sophie freschissima, vivace, ben cantata (Ruth Iniesta), un Albert perfetto come figura di solido borghese di bella presenza, tutto rispettabilità e poca poesia (Jean-François Lapointe), un Bailli simpatico buon uomo, ma dalla vocalità poco a fuoco (Luca Gallo). Completavano il cast Alessandro Luciano (corretto e disinvolto Schmidt), Lorenzo Malagola Barbieri (Johann bravo attore ma cantante perfettibile), oltre a Tommaso Caramia (Brühlmann) e Aloisa Aisemberg (Kätchen).
Bene il coro di voci bianche diretto da Alhambra Superchi e molto bravi i ragazzi cantanti – attori che interpretavano i fratelli e le sorelle di Charlotte e Sophie (Susanna Boninsegni, Carlo Alberto Brunelli, Irene Cavalieri, Diego Bolognesi, Pietro Bolognini, Marco Conti).
Werther ci appare fin dall’inizio su una poltrona posta sul lato destro della scena; è prossimo al gesto estremo e si stordisce bevendo. L’impianto scenico, piuttosto semplice (Tiziano Santi), consta di una silhouette di casa, che, divenendo trasparente, lascia scorgere ciò che il protagonista vorrebbe fosse stato: lui, Charlotte e un figlio bambino che vivono semplicemente un’esistenza serena, o due coniugi anziani che affrontano assieme l’ultima parte del loro cammino in una casetta ormai lontana in fondo al palcoscenico. Più spesso, la casa svela l’interno, quando la quarta parete si alza come un sipario e Werther ricorda cosa è avvenuto in realtà; allora lui si alza e rivive la storia. Nel primo atto l’abitazione è circondata da una natura rigogliosa, che man mano si depaupera fino a svelare alla fine un tronco morto. Charlotte, diversamente dal solito, è una creatura piena di vita, che vorrebbe ribellarsi al giuramento fatto in punto di morte alla madre; una madre che domina la famiglia sotto forma di quadro che in uno scatto di illusoria liberazione nel terzo atto viene scaraventato per terra. Sarà Charlotte stessa a posare l’astuccio contenente lo strumento di morte sulla poltrona rossa, a decretare la fine di Werther. Spettacolo semplice (Rosetta Cucchi, regista), scorrevole, con qualche momento veramente coinvolgente (il primo duetto tra i protagonisti che, dimentichi di tutto, sentono sbocciare l’amore e si lasciano andare, circondati da una rigogliosa natura, finché la voce del Bailli non li riporterà alla realtà). Costumi che diresti risalenti a un modernariato a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso (Claudia Pernigotti) e luci che personalmente avrei preferito in certi momenti meno nette e definite, ma alle quali non si poteva negare una indubbia professionalità (Daniele Naldi).
Nella recita del 16 dicembre mutavano i due protagonisti. A Juan Diego Flórez subentrava Celso Albelo, in possesso sicuramente di mezzi vocali più consistenti e sonori, ma non della sottigliezza espressiva e della solidità tecnica del collega. Intendiamoci, Albelo è cantante di vaglia e la sua prestazione è stata più che buona. Sa essere dolce, appassionato, ha gusto, esibisce un fraseggio vario. Gli rimprovero solo una certa disuguaglianza tra il centro, soffice e morbido, e l’acuto, molto sonoro, ma che suona un pochino estraneo al resto della voce quasi a suggerire un sospetto di spinta. Altri due piccoli appunti: talvolta alcuni suoni in piano apparivano non perfettamente appoggiati, anche se gradevoli, mentre la pronuncia francese andrebbe perfezionata. Mi permetto di esprimere queste osservazioni nei confronti di un artista che stimo molto, ma che potrebbe, penso, raggiungere risultati ancora più alti in questo personaggio. Va anche detto che si trattava di un quasi debutto, per cui con tutta probabilità diverse cose andranno a posto col tempo.
Più pallida della Leonard ma comunque sensibile e delicata interprete, oltre che credibile attrice, José Maria Lo Monaco. Dotata di una vocalità più affine alla pagine distese del primo e del quarto atto, quando il canto si fa vibrante e il fraseggio richiede maggiore spessore drammatico, compare una strana caratteristica, cioè suoni inquinati da un vibrato che sta a metà tra quello stretto e quello largo e che non è piacevolissimo. Una prova in ogni caso più che dignitosa, che ha raccolto caldi consensi da parte del pubblico.
Il successo del 15 dicembre meriterebbe un capitolo a parte: trionfo per Juan Diego Flórez, al quale è stato richiesto a gran voce il bis di Pourquoi me réveiller (non concesso quella sera, ma regalato al pubblico della pomeridiana del 18 dicembre), trionfo per Mariotti e per Isabel Leonard, con ovazioni e battiti di piedi da far tremare il teatro; ma successo vivacissimo anche il 16 dicembre, soprattutto per Celso Albelo, che ha avuto consensi fuori della norma, e per Mariotti, come sempre amatissimo, con ragione, a Bologna.
La recensione si riferisce alle recite del 15 e 16 dicembre 2016.
Silvano Capecchi