“Turandot non esiste” ripetono ossessivamente a Calaf le tre maschere Ping, Pong e Pang nel primo atto del capolavoro di Puccini. Il monito intimidatorio dei tre cortigiani è stata la chiave di lettura della nuova produzione dell’opera in scena in questi giorni al Regio con Gianandrea Noseda sul podio e il “tutto fare” Stefano Poda per la regia, le scene, i costumi, le luci e le coreografie. Il trionfale successo della prima (oltre un quarto d’ora di applausi alla conclusione) ha provato ancora una volta la particolare affezione del pubblico torinese per Noseda – al suo undicesimo anno di direzione musicale del teatro di Piazza Castello – e per il lavoro di Poda autore al Regio, nel recente passato, di tre spettacoli memorabili: Thaïs, Faust e Leggenda (Solbiati).
Le produzioni del regista trentino - spesso e non a torto definito come visionario - si caratterizzano per la strutturazione del linguaggio e una densità di significati non sempre immediati: uno stile certamente mai banale e, nella sua indagine su vari piani, capace di rileggere, sempre nel rispetto della drammaturgia e della partitura, i lavori sotto visuali nuove e inedite. Oltre all’interpretazione di Poda, questa Turandot sarà anche ricordata per la decisione radicale di Noseda di chiudere l’opera subito dopo la morte di Liù, esattamente nel punto in cui si è fermata la mano di Puccini. Una scelta che è una risposta drastica alle problematiche legate all’incompletezza della partitura. Sappiamo come la fiaba teatrale di Carlo Gozzi, ripresa e adattata per Puccini da Giuseppe Adami e Renato Simoni, risolva il finale con il coup de théâtre del sacrificio di Liù al quale segue - nel volgere di appena pochi minuti - la capitolazione di Turandot e il radioso happy end.
Una soluzione plausibile se pensata secondo i meccanismi narrativi della fiaba - dove i caratteri dei protagonisti possono mutare repentinamente - ma poco verosimile per le logiche del melodramma e della scena. Dall’epistolario e dalle numerose testimonianze giunte a noi, conosciamo bene le titubanze di Puccini nella stesura dell’ultimo duetto per trovare una credibilità drammatica alla repentina trasformazione di carattere dell’algida donna. Come provano i ventitré fogli di abbozzi musicali, il travaglio accompagnò il compositore fino alla fine nella clinica del dottor Buys Ledouxa Bruxelles. L’ultimo appunto autografo di Puccini per il finale (“come per Tristano”) pare suggerire l’idea di un amore che trasforma e trasfigura i due protagonisti con una soluzione radicalmente diversa dai toni trionfali del finale proposto da Franco Alfano.
Conosciamo ormai bene tutti i dettagli dell’attivismo - ammettiamolo non unicamente artistico - di Ricordi e di Toscanini per dare una conclusione dell’opera e per individuare un musicista idoneo all’ingrato e arduo compito. L’intervento di Alfano (nella sua compiutezza portato alla luce solamente una quarantina di anni fa) non ha mai convinto pienamente parte del pubblico e numerosi addetti ai lavori. Lo stesso Toscanini intervenne, apportando tagli al lavoro di Alfano, già in occasione della prima rappresentazione dando così vita ad una versione del finale destinata a diventare, almeno sino a Berio, quella ufficiale. Una ventina di anni fa il compositore ligure, partendo, a differenza di Alfano, dagli ultimi appunti di Puccini, scrisse un nuovo finale che chiude l’opera in una dimensione irrisolta e sospesa, vicina a quell’idea di dissolvenza tristaniana pensata dal compositore.
Gianandrea Noseda, attenendosi all’originale pucciniano, ha realizzato una Turandot dal finale “aperto” scegliendo di percorrere una via condivisa e congeniale con l’impostazione ideata da Poda. Il regista trentino ha pensato l’intera vicenda come percorso onirico compiuto da Calaf nel confronto con l’“alterità”, con ciò che si trova al di fuori della nostra percezione intellettuale. Chi conosce Poda ha cominciato a comprendere la centralità nel suo lavoro del tema relazionale tra i personaggi. La soluzione degli enigmi e il desiderio della conquista della sanguinaria Turandot - che esiste unicamente come proiezione mentale dell’ideale femminino e si moltiplica in decine di donne diverse - diventa un percorso di formazione che porterà Timur ad una nuova consapevolezza e quindi ad una rinascita. Un cammino mentale culminante nel sacrificio di Liù: evento che consentirà ai diversi personaggi di risolvere i propri nodi interiori.
Poda non ci dice cosa accadrà ai singoli protagonisti, lascia comunque intuire come alcune possibilità: l’uscita dai propri sogni per Calaf, un contatto sano con la vita per Turandot e un cammino mano nella mano di Timur con Liù “nella notte che non ha mattino”. La proiezione intellettuale della storia è stata rafforzata da Poda dalla soppressione scenica delle consuete cineserie e dalla ideazione di una scenografia unica caratterizzata da elementi diafani e leggeri nettamente evidenziati dalla nitidezza delle luci. Sul fondale del palcoscenico si aprono tre enormi portali, luoghi di apparizioni della folla e, allo stesso tempo, strumenti per dare incisività visiva alle risposte ai tre tremendi quesiti della principessa.
La lettura del regista, che ci ha riportati al carattere fantastico originario della vicenda, ha mantenuto da una parte un sottile e raffinato richiamo all’oriente con la predilezione per il bianco - anticamente in Cina il colore del lutto - dando dall’altra risalto al ruolo del coro (preparato con la consueta perizia da Claudio Fenoglio) come protagonista e veicolo dell’intera vicenda. La dimensione corale è stata intensificata anche dalle curatissime coreografie nelle quali gli i danzatori e le danzatrici con i loro corpi statuari e immacolati hanno dato vita ad una drammaturgia visiva immediata e perfettamente aderente sia alla musica che alla curva emotiva della narrazione.
La direzione ruggente di Gianandrea Noseda - alla sua prima Turandot - si è compiaciuta della straordinaria orchestrazione della partitura indugiando forse un po’ eccessivamente sugli effetti fragorosi delle percussioni. Più che alle raffinatezze emotive e al sottile senso di inquietudine il direttore ha preferito dare risalto ad un’aggressività sonora violentache rimanda ai mondi ancestrali pensati da Stravinskij (ricordiamo che Puccini fu un appassionato sostenitore della "Sagra della primavera" fin dalla sua celebre prima esecuzione parigina).
Per il ruolo della sanguinaria protagonista la scelta è caduta Rebeka Lokar nuovamente al Regio dopo una produzione di “Un ballo in maschera” risalente ad alcuni anni fa. La cantante slovena - che iniziò la propria carriera artistica ricoprendo ruoli di mezzosoprano - può vantare una particolare familiarità con i ruoli pucciniani: limitandoci agli ultimi sei mesi della sua attività, l’artista ha felicemente interpretato "Turandot" a Sassari la scorsa estate e "Nabucco" all' Arena di Verona e, appena prima di giungere a Torino, ha sostenuto il ruolo di Minnie al San Carlo di Napoli con Juraj Valčuha sul podio.
La Lokar, sulla scena del Regio nonostante un grave lutto familiare, ha conquistato gli ascoltatori per la fenomenale padronanza tecnica che le ha permesso un canto mai forzato ed estremamente curato nel fraseggio. Musicalmente la sua Turandot non ha mostrato quella gelida indole che solitamente associamo alla spietata principessa ma ci è parsa piuttosto giocata su sfumature dinamiche e di colore che hanno dato una caratterizzazione fortemente umana, forse alcuni troveranno eccessivamente, al personaggio. La voce della Lokar ha mostrato una nitidezza di suono mai sforzata mantenendo costantemente una linea di canto curata nel fraseggio. Una purezza e bellezza vocale che ci piacerebbe ascoltare in qualche regina donizettiana.
Il Calaf di Jorge de Léon ha dato prova di possedere un suono squillante e brillante ma, di contro, ci pare abbia mostrato un’emissione non sempre fluida e ben indirizzata. Soprattutto nel primo atto si percepiva chiaramente una tendenza del tenore a cantare in gola con una conseguente perdita di volume, particolarmente nel registro acuto. Le cose sono andate meglio nel secondo e nel terzo atto e il cantante ha sciorinato con baldanza e sicurezza, ma con scarsa trepidazione e partecipazione, l’ormai abusata romanza “Nessun dorma”.
Erika Grimaldi, cantando Liù, ha mostrato, a nostro modesto avviso, le pecche della propria tecnica: un canto poco proiettato che si indebolisce nel settore acuto (difetto particolarmente percepibile nel finale di “Signore ascolta”) e un eccessivo vibrato largo. Vocalmente fresco In-Sung Sim che ha delineato un Timur non così decrepito come ci capita frequentemente di ascoltare. Musicalmente corrette, anche se non sempre perfettamente collegate con la fossa dell’orchestra, le tre maschere: Marco Filippo Romano (Ping), Luca Casalin (Pang) e Mikeli Atxalandabaso (Pong). Per loro Poda ha pensato ad un approfondimento caratteriale nell’ironia - la più alta forma di conoscenza - e nella sagacia. Preciso e dolente negli accenti quasi paterni l’imperatore Altoum di Antonello Ceron. Tutti ampiamente soddisfacenti i personaggi di “contorno”: Roberto Abbondanza (un mandarino), Joshua Sanders (il principe di Persia), Sabrina Amè (prima ancella) e Manuela Giacomini (seconda ancella). Da notare come lo spettacolo sia anche il primo contributo del Regio al progetto europeo “OperaVision”, la piattaforma video interamente dedicata all’opera che consentirà di rivedere lo spettacolo in streaming gratuito per sei mesi a partire dal 25 Gennaio prossimo sul sito su www.operavision.eu [16].
La recensione si riferisce alla prima del 16 Gennaio 2018
Turandot | Rebeka Lokar |
Calaf | Jorge de Léon |
Liù | Erika Grimaldi |
Timur | In-Sung Sim |
Altoum | Antonello Ceron |
Ping | Marco Filippo Romano |
Pang | Luca Casalin |
Pong | Mikeldi Atxalandabaso |
Un mandarino | Roberto Abbondanza |
Il principe di Persia | Joshua Sanders |
Prima ancella | Sabrina Amè |
Seconda ancella | Manuela Giacomini |
Direttore | Gianandrea Noseda |
Regia, scene, costumi, coreografia e luci | Stefano Poda |
Maestro del coro | Claudio Fenoglio |
Coro e Orchestra del Teatro Regio di Torino, Coro di voci bianche del Conservatorio "G. Verdi" di Torino | |
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Torino |
Lodovico Buscatti