L’avvenimento ha luogo parte in Biscaglia, parte in Aragona. Epoca dell’azione il principio del secolo XIV” recita il libretto di Salvadore Cammarano (completato, per la sua morte improvvisa, da Emanuele Bardare), che non ci fornisce alcuna altra indicazione per segnalare storicamente quanto avviene in scena. Lo spettatore capisce che c’è una guerra civile in corso, che tenore e baritono appartengono a due fazioni rivali oltre ad essere rivali in amore. Che importa sapere che la guerra è scoppiata per succedere a Martino I re di Aragona e di Valenza, principe di Catalogna, morto senza eredi il 31 maggio 1410? Cinque pretendenti al trono si affrontarono fino alla incoronazione di Ferdinando Trastàmara infante di Castiglia, avvenuta nel giugno del 1413. Il libretto di ciò non si preoccupa, né si preoccupa di aver mescolato i rappresentanti delle fazioni (complici gli sbagli del dramma di Gutiérrez da cui l’opera deriva) o di aver citato nomi di città delocalizzandone la posizione. Al librettista bastano i lampi delle spade, un accampamento militare, uno di zingari ove giace ferito il trovatore Manrico, cupe prigioni incuneandovi le vicende dei personaggi, che personaggi non sono, ma emblemi di passioni infuocate, di gelosie furibonde e di amori idealizzati raccolti e sublimati dalla melodia verdiana. Fa eccezione la zingara Azucena, l’unica madre “in vita” nel catalogo operistico di Verdi (a parte mistress Alice Ford, ma siamo nella commedia lirica che ne conclude la carriera), poiché le altre sue madri sono in cielo a vegliare sulle figlie, al cui onore sulla terra provvedono i padri. Ė una “parte prima, primissima, più bella, più drammatica, più originale dell’altra” (cioè Leonora), scrisse il musicista in una lettera a Francesco Maria Piave. Di un libretto a lungo criticato perché ritenuto oscuro nella vicenda, esasperato nel cozzo dei sentimenti, cupo per i troppi morti nel finale, senza contare l’antecedente di una zingara arsa sul rogo e di un bimbo bruciato per sbaglio (Gutiérrez aveva accentuato in El Trovador, il suo primo dramma applauditissimo a Madrid nel 1836, i contenuti romantici sulla scia di Victor Hugo), Verdi con superba invenzione seppe individuare i nodi focali: amore, gelosia, vendetta, rimembranze in atmosfere quasi sempre notturne squarciate da improvvise fiamme.
Abolito il quadro storico ove agiscono i personaggi (Verdi trarrà maggior partito dall’ambientazione storica nelle opere successive, quando porrà gli affetti familiari in opposizione alla società sublimando la morte dei suoi eroi schiacciati dal potere e dalla violenza), Il Trovatore potrebbe essere rappresentato anche in una scena vuota giocando solo sulle luci, purché si abbia a disposizione un quartetto vocale superlativo e un direttore che sappia “narrare una vicenda e accompagnarne” con intensità il canto.
L’allestimento modenese ha scelto di mettere in scena un Medioevo plumbeo, con pertinenti giochi di luce: di Alessandro Ciammarughi erano le scene ed i costumi, grigi anch’essi, escluso quello di Leonora, azzurro con manto rosso a simboleggiarne l’amore che si trasforma in passione sacrificale; le luci di Franco Marri. Non ho però capito perché i soldati di Manrico (e lui stesso) indossassero abiti più saraceni che zingareschi: nella Spagna del Quattrocento i saraceni, che pur talvolta nei secoli precedenti avevano combattuto fra di loro alleandosi a principati cristiani, ormai dominavano solo il sud iberico, in attesa della “reconquista” nel 1492 del loro ultimo regno, Granada, da parte di Isabella di Castiglia e del suo sposo Ferdinando d’Aragona. La scena unica presentava due alte scale laterali mosse per creare le varie ambientazioni; alcune quinte mobili racchiudevano talvolta i luoghi e lasciavano apparire in trasparenza soprattutto i cori, evitandone gli andirivieni che potevano apparire disordinati. La regia di Stefano Vizioli non ha trovato una linea unitaria (alcuni simboli come l’occhio della strega sul fondale erano in contrasto con un accentuato realismo impresso a varie scene), infarcendo anche il palco con inutili mimi, come quelli che contrappuntavano con finti duelli il coro “Squilli, echeggi la tromba guerriera”. Il difetto maggiore della regia stava nell’aver abbandonato a loro stessi i cantanti, che spesso si trovavano al proscenio a cantare rivolti al pubblico. Purtroppo quando la scenografia lasciava vuoto il fondo del palcoscenico, la voce dei cantanti allontanandosi dalla ribalta si disperdeva.
Il coro Claudio Merulo diretto dal maestro Martino Faggiani si è difeso con onore; il settore maschile nella scena del Miserere è stato emozionante, perfettamente udibile nei suoi pianissimi interni. Nessun appunto anche sull’orchestra dell’Opera italiana, se non che il direttore Andrea Battistoni, che dirigeva a memoria, ha preferito un volume quasi sempre eccessivo e ritmi irruenti, coprendo spesso le voci e togliendo alla partitura il romantico alone notturno e la intima dolcezza di numerose melodie; è rimasta tuttavia pregevole nei momenti più drammatici. Il direttore ha inoltre accettato, senza dubbio per non mettere alla frusta i cantanti, il taglio di quasi tutte le cabalette.
Di vario livello i comprimari: buoni il vecchio zingaro di Enrico Gaudino e il Ruiz di Simone Di Giulio, censurabile il messo di Gian Marco Avellino e poco incisiva la Ines di Simona Di Capua. Ferrando deve aprire l’opera dopo poche battute orchestrali e ha il compito di narrare con rabbia ma anche con stupore superstizioso la storia della zingara arsa sul rogo e che da anni terrorizza il castello in varie sembianze: il basso Francesco Milanese ha voce armoniosa, sicura in tutta la tessitura, acuti facili e ben timbrati e ha onorato il non facile brano, comprese le numerose quartine e terzine. Il baritono in quest’opera canta l’aria amorosa forse più bella e più difficile del repertorio verdiano, “Il balen del suo sorriso”, che va cantata con dolcezza, con buon legato, rispettando le richieste del musicista (dolcissimo, ppp, forcelle continue) in un flusso melodico senza sosta. Vittorio Vitelli, a parte il buon volume, non ha rispettato il dettato verdiano, né qui né nel resto del ruolo, manifestando difficoltà negli acuti e dando un’interpretazione troppo “vilain” del personaggio. La migliore del cast è stata Silvia Beltrami, Azucena, voce di bel colore mezzosopranile, che sale sicura all’ottava superiore senza scarti, palesando un canto pregevole e una lodevole interpretazione di una donna in continuo contrasto tra il desiderio di vendetta e l’amore per un figlio che non è il suo; drammaticissima, ma con sommo controllo della linea vocale, nel racconto “Condotta ell’era in ceppi” (ma quanti racconti nel suo ruolo!) e tenera nella scena finale del carcere, per esaltarsi infine nel grido “Sei vendicata, o madre!” Come Verdi desiderava, non una pazza, bensì una donna lacerata fra due potenti sentimenti. Vittoria Yeo mi sembra un soprano lirico dalla tecnica forbita (ben eseguita l’aria del primo atto e ben onorate le agilità della cabaletta, ripetuta ma senza variazioni), dalla voce che si espande luminosa verso l’acuto, ma dall’ottava inferiore meno sonora, che però con intelligenza non ha mai forzato. Forse il ruolo è ancora un po’ troppo oneroso, come ha rivelato nella grande scena del quarto atto: il recitativo è stato ben scandito (pronuncia un buonissimo italiano), l’aria è stata eseguita perfettamente dal punto di vista vocale, ma era priva dell’afflato romantico richiesto (una lode all’oboe che cullava dolcemente la melodia); un poco spenta nella tessitura bassa di alcuni punti del Miserere, stanca e poco incisiva nella cabaletta, non ripetuta.
Manrico è “il trovatore”, un personaggio caro al mondo romantico, dalla poesia dedicatagli da Berchet alla romanza di Arturo nel terzo atto dei Puritani: è un esule spesso solitario, un campione della libertà, un “cantautore” malinconico. Il personaggio richiede voce giovanile e luminosa, acuti baldanzosi che ne manifestino il carattere eroico, dinamica cangiante in continuazione. Il tenore Gianluca Terranova ha pregevole volume, squillo potente, giunge al finale con sicurezza, affronta la terribile cabaletta in modo spavaldo (le terzine però non sono ben sgranate), ma se l’ardente soldato è apprezzabile, il poeta innamorato lo è meno.
Nell’applausometro finale, che è stato unanime per tutti, coro direttore e cantanti, il decibel si è innalzato per il mezzosoprano, che nello scorso settembre è stata applaudita nel Requiem verdiano, eseguito nel duomo di Modena in memoria di Luciano Pavarotti, nel decimo anniversario della sua scomparsa.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 5 novembre 2017
Il Conte di Luna | Vittorio Vitelli |
Leonora | Vittoria Yeo |
Manrico | Gianluca Terranova |
Azucena | Silvia Beltrami |
Ferrando | Francesco Milanese |
Ines | Simona Di Capua |
Ruiz | Simone Di Giulio |
Un vecchio zingaro | Enrico Gaudino |
Un messo | Gian Marco Avellino |
Direttore | Andrea Battistoni |
Regia | Stefano Vizioli |
Scene e Costumi | Alessandro Ciammarughi |
Aiuto regista | Lorenzo Nencini |
Orchestra dell'Opera Italiana | |
Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia | |
Maestro del Coro | Martino Faggiani |
Allestimento della Fondazione Teatro Lirico G. Verdi di Trieste | |
Coproduzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia,Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatro Verdi di Pisa |
Ugo Bedeschi