Médée o Medea. Benchè indicata un po' dappertutto come Medea (nei Plakate fuori del teatro, nel sito Internet della struttura o nelle interviste e negli articoli sull'evento), il capolavoro di Luigi Cherubini è stato eseguito in apertura di stagione alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino nella sua versione originale del 1797, così come venne presentata al Teatro Feydeau di Parigi (nessuna relazione col famoso commediografo del secolo successivo, naturalmente).
Com'è d'uso ormai da qualche anno abbiamo assistito al ripristino dei dialoghi parlati in luogo di quei recitativi accompagnati scritti da Franz Lechner nel 1855 per Francoforte e poi tradotti in italiano, restando in uso lungo quasi tutto il '900 quando la Medea veniva ripresa immancabilmente nella nostra lingua.
Ammiratissimo da Beethoven, fra gli altri, il lavoro di Cherubini arrivò in terra tedesca già nel 1800 (Berlino e Vienna) mentre in Italia si potè applaudirla solo nel 1909 grazie a Toscanini, fino alla travolgente rivoluzione callasiana, partita da Firenze per portare l'opera clamorosamente all'attenzione del mondo musicale.
Nella capitale tedesca stavolta sul podio c'era Daniel Barenboim alla testa della "sua" Staatskapelle, l'orchestra della Lindenoper. Teatro che ha riaperto i battenti l'anno scorso dopo lavori di ristrutturazione e ammodernamento che, partiti per durare circa tre anni, sembravano poi infiniti dato che il tempo si è più che raddoppiato (anche i tedeschi non scherzano quando si tratta di intoppi nei lavori pubblici). La sala si presenta scintillante senza il sapore di "finto" che spesso affligge le grandi architetture del passato quando le si restaura cancellando tutti i segni del tempo.
L'acustica è ottima, cosa che ha permesso di godere del bel suono dell'orchestra di casa, con contorni nitidi, colori netti e dinamiche ampie. Peccato che Barenboim abbia inferto alla straordinaria scrittura orchestrale di Cherubini, quasi un'epitome della nobile tragicità neoclassica, un impeto e dei furori più indirizzati verso derive romantiche. Il vigore musicale e l'eloquenza incisiva della partitura non ne escono certo mortificate ma le sciabolate di suoni rilucenti alternate a lirici ripiegamenti ricchi di pena sembravano poco in stile con la severa rappresentazione di una funesta fatalità che trae origine dalla Grecia più lontana. Lasciandosi forse ingannare dall'ammirazione che Beethoven, come abbiamo accennato, aveva per Cherubini, Barenboim ha gestito la partitura come se fosse nata a Bonn.
Ammirevole nei suoi furori, espressi con una scolpita declamazione da tragedienne (sebbene a volte un po' sopra le righe), la protagonista Sonya Yoncheva. La sua voce unisce potenza, volume, estensione e un ottimo senso del legato. A cercare il pelo nell'uovo si riconosce un vibrato che a tratti diventa un po' troppo evidente, come nelle zone più acute di Vous voyez des vos fils (Dei tuoi figli la madre). Il timbro trova invece le sue sonorità più emozionanti nelle note basse, con cupe risonanze bronzee.
È evidente una preparazione scrupolosissima della parte in ogni recesso musicale ed espressivo, ma a tratti sorge il dubbio che la cura quasi maniacale abbia preso il sopravvento sull'immedesimazione, e la prova di stile e di tecnica per quanto alta, non ha la genialità che avrebbe reso unica l'intera prestazione.
Giasone era Charles Castronovo che appartiene alla categoria dei tenori scuri, quella per intenderci che a vari livelli comprende un Kaufmann o un Villazon tornando indietro fino a Placido Domingo. Il tenore americano non fa di Giasone un vilain ingannatore alla Pollione ma vuole dargli una certa dignità di sentimenti. Vocalmente è più suadente nei toni bassi mentre negli acuti e nelle mezze voci l'appoggio sembra perdere un po' di fermezza.
Molto brava Dircé (Glauce della versione italiana) è stata Elsa Dreisig, che fino dalla scena iniziale dell'opera trova la giusta intensità drammatica. La voce di soprano lirico è chiara, luminosa nei centri e appena più stridula verso l'alto ma con la giusta agilità nell'aria del primo atto Hymen! Vien dissiper une vaine frayeur. Nel complesso la Dreisig tratteggia bene il tormentato personaggio e la sua consapevolezza del proprio destino infelice.
Professionale ma senza emozionare il Creonte di Iain Paterson, ben cantato ma con voce asciutta e povera di armonici; il canto è austero come dev'essere per un sovrano ma anche abbastanza monotono almeno fino alla scena con Medea nel secondo atto, dove Paterson inizia a mostrare un certo coinvolgimento ed è più variegato anche nell'espressione musicale, sembrando cedere al potere seduttivo insito nell'eroina.
Eccellente Neris è stata Marina Prudenskaya. Il ruolo è piccolo musicalmente parlando ma anche quando era in scena come presenza muta l'artista era eloquente, stretta nel suo abito nero, condividendo con muta compassione il destino di Medea. La cantante si è guadagnata un nutrito e meritato applauso alla fine di Ah! Nos peines seront communes, eseguita con quella rigorosa sobrietà che non avrebbe trovato espressione senza la fermezza vocale derivata da un ferreo controllo del proprio strumento.
A completare il cast le due ancelle di Dircè: bravo il soprano Sarah Aristidou e ancora di più il mezzosoprano tedesco Corinna Scheurle.
Di suggestione progressivamente crescente la prova del Coro, impegnato spesso fuori scena, diretto da Martin Wright.
Quanto all'allestimento, il tocco moderno a tutti i costi viene stavolta in massima parte dalle brutte scene di Martin Zehetgruber che circoscrivono l'azione in uno spazio (un cortile? Un magazzino?) chiuso da saracinesche che a tratti si aprono per mostrare il coro o fare strada al corteo nuziale. Molto efficace invece il disegno luci di Olaf Freese che al freddo biancore iniziale cede il posto a chiaroscuri creati da fasci luminosi e giochi di ombre di considerevole efficacia.
I costumi di Carla Teti trovano l'espressione migliore nel drappeggiante peplo di Medea (sempre con una spalla scoperta, particolare che non è piaciuto a una parte degli spettatori e della stampa tedesca) e nel nero assoluto di Neris. Per il resto, vorremmo proporre una moratoria di qualche anno per non vedere più cori abbigliati in grisaglia grigia con sovrani in cappotto per distinguerne l'autorità, come in questo caso è per Creonte.
Su queste premesse sceniche la regia vera e propria di Andrea Breth non si distingue per meriti speciali, in massima parte la condotta scenica dei vari personaggi è stata alquanto convenzionale. Alcune idee non sono parse entusiasmanti, come quella di creare un 'doppio' di Dircè (Charlene Kreemke) con cui Giasone sembra intendersela, o quella di fare coprire di denaro la stessa Dirce nel giorno delle nozze.
Quando gli eventi stanno per precipitare però la Breth trova un'identità più precisa per la rappresentazione rivolgendosi al più classico clima da tragedia greca fra bracieri, coro ripegato su se stesso, ombre incombenti, gestualità enfatica. Nel finale il sipario inizia a chiudersi mentre ancora l'orchestra è impegnata nelle frasi finali della partitura e la protagonista, che si è pugnalata, muore aggrappandosi ai lembi del sipario che si chiude. Un discreto colpo di teatro ma anche una bella resa al più puro melodramma.
Ultima notazione per i figli di Medea, uno nero e l'altro indiano (Malik Bah e Toyi Kramer): tanto di cappello al volere richiamare il problema degli immigrati, ma anche un calcio alle leggi della genetica considerando che il padre di entrambi dovrebbe essere Giasone.
Applausi molto intensi (ma non le interminabili ovazioni a cui spesso il pubblico berlinese indulge) da parte di una Staatsoper pressocchè esaurita. Dalle gallerie qualche spetttatore è perfino uscito immediatamente terminata la risonanza dell'ultima nota.
La recensione si riferisce alla rappresentazione del 12 ottobre 2018.
Médée | Sonya Yoncheva |
Jason | Charles Castronovo |
Créon | Iain Paterson |
Dircé | Elsa Dreisig |
Néris | Marina Prudenskaya |
Prima ancella di Dircé | Sarah Aristidou |
Seconda ancella di Dircé | Corinna Scheurle |
Figli di Jason e Médée | Malik Bah, Toyi Kramer |
Direttore d’orchestra | Daniel Barenboim |
Regia | Andrea Breth |
Scene | Martin Zehetgruber |
Costumi | Carla Teti |
Luci | Olaf Freese |
Drammaturgia | Sergio Morabito |
Maestro del Coro | Martin Wright |
Staatsopernchor | |
Staatskapelle Berlin |
Bruno Tredicine