Entra con passo svelto, Daniel Barenboim e siede al pianoforte attorniato dagli studenti delle università milanesi, una quarantina in tutto, appositamente fatti accomodare sul palcoscenico. Pare quasi una lettura pomeridiana tra amici, più che il concerto iniziale dell’integrale beethoveniana che si snoderà tra gennaio e giugno. Il teatro è gremito, ma non esaurito del tutto, l’ascolto è attento, meditato, affascinato dalle proposte di Barenboim.
Scatta sotto le sue dita la Sonata in fa minore, scava subito nelle sonorità, mettendo in luce i nuclei tematici e lo scorrere inesausto della vena melodica. Del cosiddetto primo Beethoven si portano da subito in evidenza i contrasti interni alla forma sonata che di li a un paio di decenni sarebbe apparsa diversa.
Segue la Sonata in mi b maggiore, introdotta da una serie di domande cui Beethoven cerca di dare risposta, tutta innervata dalla tensione di libertà che dapprima si quieta nel tema dell’Allegro per poi trovare naturale sfogo nel Presto con fuoco finale. I tempi preferiti da Barenboim per queste due sonate son volti alla ricerca della fluidità e del contrasto tra le parti. Tempi snelli, veloci, inseriti nel fraseggio e nella scelta delle dinamiche: emerge, scolpito, il rovello filosofico e umano del compositore. Il pubblico risponde, così, entusiasta al termine dello scatenato movimento finale e rimane in attesa della Grosse Sonate für das Hammerklavier.
Rientrano gli studenti, rientra Barenboim accolto da applausi festosi. Un momento di silenzio ed inizia il lungo viaggio musicale e terreno scandito dagli accordi, forse, più problematici nella vita di un esecutore. Scorrono i temi, si parlano, si confrontano, cercano una soluzione, si scontrano anche, poi si acquietano e il teatro sprofonda nella silenziosa meditazione dell’Adagio sostenuto. Ogni nota è pesata e inserita in un lungo lamento, trattenuto, sussurrato. Beethoven porge la sua anima al mondo togliendone ogni velo e stravolgendo le abitudini musicali cui si era ancorati. Infine si attende solo l’accordo, enorme e sforzato con immensa fatica, al termine dell’Allegro risoluto e l’irrompere liberatorio dell’applauso.
Emanuele Amoroso