Francesco Cilluffo, giovane ma già affermato direttore d'orchestra, ha da poco concluso l'impegnativo tour che per OperaLombardia l'ha portato a dirigere “A midsummer night's dream” nei teatri di Cremona, Como, Pavia, Brescia e Reggio Emilia raccogliendo unanimi consensi di pubblico e critica. Approfittando di questa sua breve pausa lavorativa prima del prossimo impegno, gli facciamo qualche domanda...
Sei diplomato in composizione e direzione d'orchestra, laureato in storia della musica con partecipazioni ad importanti masterclass di profumo internazionale. Hai sempre avuto questa propensione per gli studi musicali? Quali sono le ragioni che ti hanno spinto verso questa professione?
Pur non venendo da una famiglia di musicisti, la musica ha sempre fatto parte della mia vita. Quando ero piccolo mio padre mi raccontava le storie delle opere liriche come si raccontano le fiabe prima di andare a letto. Mi ricordo ancora i primi brividi provati ascoltando a cinque anni Rigoletto, Aida e Don Giovanni; tanto che a sette anni ho chiesto di entrare nel coro di voci bianche del Teatro Regio di Torino, e da allora non mi sono più fermato...
Hai vissuto per un lungo periodo a Londra per perfezionare la tua preparazione. Quanto hanno pesato sulla tua carriera i Master all'estero rispetto alla tua preparazione ricevuta al Conservatorio di Torino?
Gli anni a Londra mi hanno formato come artista e come persona, e li considero imprescindibili per essere arrivato dove sono. Non solo ho ottenuto un Master e un dottorato (PhD), ma ho potuto confrontarmi e imparare da artisti quali Michael Tilson Thomas, Ivan Fischer, George Benjamin (e molti altri) ed essere parte attiva di uno dei centri culturali più attivi e importanti del mondo. Sicuramente il Conservatorio di Torino mi ha dato tanti strumenti di base importanti, soprattuto nella composizione, ma è a Londra, e in particolare alla Guildhall School of Music e al King’s College, che mi sono misurato con la realtà di fare il musicista in un mondo internazionale, meritocratico e non autoreferenziale.
Sei al termine del tuo impegno per OperaLombardia che ti ha portato a dirigere “A midsummer night's dream” presso i teatri di Cremona, Como, Pavia, Brescia ai quali si è aggiunto il TeatroValli di Reggio Emilia, tra l'altro con ottimi consensi di pubblico e critica. Pur dedicandoti anche alla direzione di opere di tradizione, hai una certa predilezione per le produzioni musicali del '900 (hai un rapporto particolarmente stretto con Britten, visto che è stato argomento anche della tua tesi di Laurea in Storia della Musica). Nutri effettivamente una predilezione per questo particolare repertorio?
Spesso le mie traiettorie di repertorio sono state paragonate a quelle di Bruno Bartoletti, data l’alternanza di grande repertorio italiano (che rimane comunque il mio terreno d’elezione) e i titoli di un certo Novecento storico, tra verismo, espressionismo e incursioni nel contemporaneo, da Mahler e Zemlinsky a Nono, da Alfano e Wolf-Ferrari a Britten e Tutino. La mia formazione di compositore sicuramente mi aiuta nell’affrontare lo studio di un vasto periodo della storia della musica, ma vorrei evitare di essere etichettato come esperto di un repertorio piuttosto che di un altro.
È vero, però, che mi appassiona rivisitare la produzione operistica a cavallo tra Ottocento e Novecento in chiave “espressionista”, perché penso che oggi abbiamo gli strumenti e la giusta distanza temporale per apprezzare la portata moderna e profonda di certe partiture ingiustamente etichettate come melense o sentimentali. Penso alla mia esperienza con Arlesiana di Cilea (di cui la Dynamic ha pubblicato il CD e il DVD, con l’ispirata regia di Rosetta Cucchi) o al Guglielmo Ratcliff di Mascagni, che ho diretto al Festival di Wexford l’anno scorso (anche questo pubblicato in CD, dalla RTÉ Lyric). Si tratta di partiture che vanno riascoltate con orecchie sgombre da pregiudizi, e con un occhio particolare verso una scrittura orchestrale che le pone al centro, e non alla periferia, dell’incredibile panorama intellettuale dell’Europa di inizio Novecento.
Britten, come ricordi giustamente tu, è una mia grandissima passione, che gli studi in Inghilterra hanno alimentato assai. La produzione di A Midsummer Night’s Dream di Britten che è appena terminata è stata davvero magica, uno di quei rari casi in cui un teatro (il Ponchielli di Cremona, capofila della produzione di OperaLombardia) ha messo insieme una compagnia quasi interamente di giovani italiani (direttore compreso) per un titolo inglese, non adagiandosi su scelte scontate e “sicure”; una scommessa ampiamente vinta e ripagata da un successo enorme per questo titolo complesso, al quale ha contribuito in modo determinante l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano.
Che doti deve avere un buon direttore d'orchestra?
Domanda complessa! Il nostro è un mestiere “oscuro” che non si finisce mai di imparare... Oltre alla base tecnica, che reputo imprescindibile (in una categoria che spesso vede figure “improvvisate”), ci vuole la capacità psicologica di conoscere e prevedere l’animo umano, nonché una grande cultura, non solo musicale: il tutto deve essere unito alla visione dell’assieme e delle potenzialità positive di una situazione, anche nei momenti più complessi.
Forse la cosa che si deve imparare il prima possibile è saper individuare l’esatto equilibrio tra il fare troppo (i professori d’orchestra devono poter respirare e far musica senza essere incitati ogni momento) e il fare troppo poco (se non si ha molto da dire perché salire sul podio?).
Tutto questo, del resto, è il nostro unico strumento per poter arrivare al pubblico, al quale dobbiamo porgere, facendo del nostro meglio, il mondo del compositore, facendolo risuonare al tempo stesso autentico, necessario e attuale. Insomma, non una sfida da poco...
Professionalmente parlando, c'è qualcosa in particolare su cui stai lavorando per migliorare?
Penso che ogni prova, ogni recita, sia un’occasione per imparare di più su se stessi e su questo meraviglioso mestiere. Da un punto di vista pratico, mi piacerebbe migliorare il mio tedesco (che diventerebbe la mia quinta lingua parlata) e imparare il russo per poter approfondire tanto repertorio operistico che vorrei esplorare ancora più a fondo, anche dal punto di vista linguistico, da Mussorgsky a Schnittke.
Quali sono le tue figure di riferimento, del presente e del passato, in ambito direttoriale?
Ce ne sono tante, a seconda del repertorio e dell’ambito in cui hanno lavorato, e sono molto eterogenee: James Levine per il suo senso del teatro, Giuseppe Sinopoli per la capacità di estrarre da certe partiture elementi nascosti, facendole suonare sempre nuove, Abbado per lo stile e la sapienza di certe scelte, Mariss Jansons per... tutto! ma amo imparare anche dalle incisioni dei grandi vecchi come Leinsdorf (i suoi Wagner, Puccini e Mozart sono modernissimi!), Reiner, Szell, Rosbaud e Monteux.
Se pensi alla tua crescita artistica e professionale ti viene in mente qualcuno che ritieni ti abbia aiutato significativamente?
Per la direzione d’orchestra citerei John Mauceri, che mi ha tramandato il metodo di studio della partitura per “colori” appreso da Bernstein, e Asher Fisch, che mi ha insegnato tantissimo sull’aspetto comunicativo e gestionale del dirigere in teatro; avendo assistito in passato John Eliot Gardiner e Lothar Zagrosek, ho inoltre carpito da loro tanti segreti del repertorio barocco e di quello contemporaneo. Come compositore, le figure più influenti nella mia formazione sono state Gilberto Bosco, Alexander Goehr, George Benjamin e Tobias Picker.
Da un punto di vista personale invece devo ringraziare i miei genitori, che hanno fatto enormi sacrifici per farmi studiare, e mi hanno sempre sostenuto, insegnandomi che un sogno, se aiutato dal talento e dal duro lavoro, può e deve essere perseguito a tutti i costi.
Qual'è il tuo approccio in particolare con l' opera, le voci e il canto in genere?
Il canto e il respiro sono alla base di tutta la musica, e per me il primo contatto con le note è nato proprio attraverso il teatro musicale. Sono ormai trent’anni che ho a che fare con l’opera lirica, in diverse forme, e ancora oggi sono affascinato da questo mondo strano come quando ero bambino. Durante i primi anni di studio della direzione d’orchestra ho voluto anche studiare privatamente canto per due anni (mi sono autoclassificato come voce di “baritono leggero inutile”) proprio perché ero interessato a capire come funziona la voce, dato il mio grande amore per il canto.
E poi, al contrario di un concerto sinfonico, dove passano pochi giorni tra prove e concerto, in una produzione d’opera si cresce dentro un pezzo di musica assieme ad un nutrito numero di artisti per settimane, a volte mesi. E questo lo trovo meraviglioso.
Penso anche di far parte di una nuova generazione di direttori italiani che ha riportato al centro del proprio percorso la consapevolezza delle ragioni del canto, e del teatro in musica, senza per questo essere meno in confidenza con l’aspetto più organico e sinfonico del mestiere.
Come abbiamo accennato inizialmente, sei diplomato anche in composizione. E poi sei l’autore del Caso Mortara, opera che aveva riscosso molto successo a New York anni fa. La scrittura è ancora un ambito nel quale hai intenzione di impegnarti?
Considero la commissione ed esecuzione a New York dell’opera Il Caso Mortara nel 2010 il coronamento della mia carriera di compositore. Si tratta di un’opera basata su una storia ebraico-risorgimentale italiana realmente accaduta, alla base del soggetto del prossimo film di Steven Spielberg, e che mi è valsa una bellissima recensione sul New York Times. Chissà che il film non riporti la vicenda “alla ribalta” e che qualche teatro voglia riproporre l’opera...
Forse perché ho cominciato a scrivere e ad avere commissioni sin da adolescente, ancora prima di compiere trent’anni avevo già al mio attivo una commissione dell’orchestra RAI, diverse esecuzioni tra Inghilterra e USA (principalmente vocale) e un premio di composizione operistica vinto in Austria. Però ritengo che la mia vita ora sia più indirizzata verso la direzione d’orchestra, perché sento fortemente il bisogno di fare musica con altri colleghi, e ricreare la musica di altri è tanto importante per me quanto creare la mia.
Aggiungerei anche che solo oggi si avverte una dicotomia tra il comporre e il dirigere; si pensi che Mahler dirigeva durante l’anno Aida o Fedora e poi scriveva le sinfonie “nel tempo libero” in estate, o che Martucci diresse la prima italiana del Tristan, così come Mascagni aveva riportato in vita a Roma, dirigendolo spesso, il Mosè rossiniano, per arrivare ai più vicini casi di Richard Strauss, Bernstein, Boulez ed Esa Pekka-Salonen. Ogni tanto, se mi arriva una commissione stimolante, scrivo, ma il centro della mia vita e dei miei interessi, com’è ovvio con il maturare degli anni, è cambiato.
Cosa pensi dell'infinito dibattito sulle regie d'opera?
Se una regia parte dal testo e non dal rifiuto di questo, si può fare davvero tutto, soprattutto per quei classici che, come diceva Calvino in letteratura, “non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire”. Sono pronto ad accettare una Carmen su di una navicella spaziale come un Trovatore da Figurina Liebig se c’è dietro un lavoro vero di interpretazione del testo.
Ho lavorato con registi di ogni estrazione, e penso che il regista arricchisca e aiuti il mio lavoro, posto che conosca l’opera. Dalla collaborazione tra regista e direttore giusto possono nascere cose davvero meravigliose, ma può anche essere molto frustrante rendersi conto che il regista col quale lavori non ha neanche un’idea chiara della trama dell’opera. Mi sono ritrovato in entrambe le situazioni. E, ahimè, sono sicuro che ad alcuni registi sia capitato di lavorare con miei colleghi il cui spartito ancora scricchiolava in prova perché non era mai stato aperto prima.
La scorsa estate ti abbiamo visto dirigere ottimamente Rigoletto a Gerusalemme in una scenografia naturale particolarmente emozionante. In quell'occasione ci colpì soprattutto la grande attrattiva che l'opera lirica esercita verso un pubblico relativamente nuovo come quello israeliano e l'attenzione delle migliaia di persone presenti nei confronti della musica del Cigno di Busseto ci ha commosso. La domanda è semplice: perchè in Italia si smantella mentre all'estero si costruisce? Il tuo pensiero?
Io credo ci siano troppi fattori diversi che contraddistinguono l’Italia e la sua storia politica rispetto ad altri paesi. Israele, ad esempio, è un paese dinamico e giovanissimo, dove tante tradizioni si sono incontrate, e la cultura è considerata molto importante, se pensiamo alla letteratura, alle arti visive e alla musica sinfonica. Quindi in questo caso la costruzione di una nuova tradizione d’opera nell’unico teatro lirico della nazione è fenomeno recente e in progress, mentre nel nostro caso si tratta di riuscire a gestire un enorme patrimonio di teatri e tradizioni che formano il tessuto culturale di un Paese che ancora non ha saputo trovare, ahimè, il modo di valorizzare appieno le sue immense risorse.
Quali sono stati gli impegni che sino ad oggi ti hanno dato maggiori soddisfazioni?
Difficile fare una classifica... sicuramente il Guglielmo Ratcliff di Mascagni a Wexford, il recente Midsummer night’s dream di Britten per OperaLombardia, ma anche La Traviata all’Opéra Royal de Wallonie a Liegi, Nabucco all’opera di Kiel, e poi diverse produzioni alla Israeli Opera (tra le quali il Rigoletto che avete visto a Gerusalemme, Roméo et Juliette di Gounod e Madama Butterfly). Il teatro di Tel Aviv è sicuramente la realtà estera con la quale ho il rapporto più continuativo, sin da quando, l’anno scorso, ero stato chiamato in emergenza per sostituire Omer Meir Wellber in Elisir d’amore; vi ho trovato, oltre ad un’ottima orchestra e un coro eccellente, professionalità e dedizione davvero di prim’ordine.
Ma voglio anche ricordare l’onore di aver diretto per due anni consecutivi l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ne Il Campiello di Wolf-Ferrari (titolo che ho ripreso al Verdi di Trieste) e ne Le Braci di Tutino (dopo la prima assoluta diretta a Martina Franca, ora pubblicata in CD dalla Dynamic), nonché le bellissime esperienze al Teatro Regio di Parma, nate sostituendo rocambolescamente all’ultimo minuto un collega indisposto (ho imparato La Cambiale di Matrimonio di Rossini in una notte!) e che hanno poi portato ad un Elisir d’amore con un cast di star e ad un Gala al Festival Verdi. Ricordo anche con simpatia un Barbiere di Siviglia al Carlo Felice di Genova con la storica regia di Pippo Crivelli, l’Arlesiana di Cilea di cui ho già parlato (a Jesi), il Das Lied von der Erde di Mahler al Festival della Valle d’Itria, i concerti in tour con l’Orchestra della Toscana e con l’Orchestra del Teatro Lirico di Cagliari, oltre al rapporto di lunga data con l’Orchestra Filarmonica di Torino, con la quale ho esplorato, nel corso degli anni, partiture di Mozart, Duruflé, Mahler e Shostakovich.
Quali sono i tuoi prossimi impegni?
Il debutto coi Bremer Philharmoniker a Brema, il debutto negli Stati Uniti con Tosca alla Tulsa Opera (nella meravigliosa produzione di Jean-Pierre Ponnelle), il Requiem di Verdi con la Bournemouth Symphony Orchestra al Grange Festival di Londra, e un graditissimo ritorno a Wexford con Risurrezione di Alfano, titolo che amo molto e che merita di essere riascoltato. Inoltre sarò di nuovo a Tel Aviv per Nabucco e Bohème, poi a Genova per la prima assoluta della nuova opera di Marco Tutino, Miseria e Nobiltà, ed infine il debutto all’Opéra de Toulon con Italiana in Algeri di Rossini.
Cosa vorresti per il futuro?
Vorrei poter continuare questa bella alternanza tra opere del grande repertorio e riscoperta di titoli del Novecento e contemporanei che a quella tradizione sappiano guardare. Spero di poter fare un giorno Parisina e Isabeau di Mascagni (la seconda è, in particolare, un autentico Tristan italiano), senza dimenticare la Sinfonia Kaddish di Bernstein, Idomeneo di Mozart, il Don Carlos, una versione scenica di Oedipus Rex di Stravinsky, ma anche tanti, tantissimi Trovatore (anche nella versione francese) e Simon Boccanegra. Altri “sogni” direttoriali includono Friedenstag e Ariadne auf Naxos di Strauss, Wozzeck di Berg, Billy Budd e War Requiem del mio amato Britten, la Settima sinfonia di Mahler, le sinfonie di Sibelius, e, almeno una volta, tutte le opere di Puccini...
Chi è Francesco Cilluffo quando non si occupa di musica? Cosa fai nel tempo libero?
Adoro leggere, sopratutto letteratura americana in lingua originale (Auster, Cunningham, Safran Foer soprattutto). Sono anche un avido divoratore di serie TV americane (più sono tragiche, meglio è), collezionista di the di ogni tipo, inventore di ricette culinarie mai sentite prima (o dopo), e che seguono una regola d’oro: non eccedere mai il tempo di preparazione di 25 minuti. Ho anche un’insana passione, sin da piccolo, per gli squali e le specie marine, ma anche per la moda maschile British e il teatro di prosa e la danza contemporanea. Altri miei amori? I musical di Broadway e le mostre di pittori preraffaelliti.
Confesso che, essendo un giramondo, nei periodi in cui posso essere a casa, non c’è modo migliore di passare il tempo libero che alternando gli amici, la vita di coppia e la compagnia di un thè, un libro, e Claudio Arrau che suona in sottofondo...
Susanna Toffaloni